7.5
- Band: 16
- Durata: 00:42:28
- Disponibile dal: 05/06/2020
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Un cambio di cantante e l’innesto di una seconda chitarra difficilmente non incidono sul sound di una band, eppure i 16 tornano tra noi con un disco decisamente fedele alla linea e convincente. Ormai tre anni fa si era segnalato l’ingresso in formazione di un secondo chitarrista, ma l’inedita formazione a cinque ha presto perso per strada lo storico cantante Cris Jerue; tocca così a Bobby Ferry farsi carico delle incombenze dietro al microfono, peraltro su tonalità abbastanza simili a quelle dell’ex compagno, continuando a spartirsi le linee di chitarra con Alex Schuster. Paradossalmente, specie pensando al sound che caratterizza da sempre i 16, questa nuova formazione più che aggiungere pesantezza incrementa la ricerca di melodia e trame di chitarra che esulano dal puro sludge, peraltro con una produzione un po’ più aperta rispetto al solito che dona molta levità alle sei corde, almeno quando non sono i riff sporchi e pachidermici le chiavi di lettura dei brani. Il risultato è un disco che complessivamente affonda le radici negli anni Novanta, quando – almeno alla periferia del mondo metal – certe sonorità si intrecciavano senza troppi limiti sotto la definizione “alternative”: il groove che ribolle dale tracce è parecchio (provare per credere “Summer of 96”, che richiama nell’approccio vocale il Phil Anselmo di “The Great Southern Trendkill”), e serpeggia spesso nel disco un approccio ‘noise’, che sembra quasi spostare la bussola dal canonico sound sludge del Sud alla NY più aggressive e ritmata, con diversi rimandi agli Helmet dei tempi d’oro. Come detto, si tratta comunque di un disco che non delude gli amanti del marchio di fabbrica 16, con brani rocciosissimi e cadenzati (“Candy In Spanish”, “Screw Unto Others”) che spesso divagano con successo verso lidi più alienati: è il caso di “Me & The Dog Die Together” o della conclusiva “Kissing The Choir Boy“. Nel mezzo, non mancano brani dall’elevata pesantezza, che in taluni casi evoca vialetti marci e speedball (“Harvester Of Fabrication”), mentre in altri come “Acid Tongue” trova una via più scarna, tra campioni vocali e grida beluine, con risultati non meno devastanti. Menzione finale per “Agora”, una traccia a modo suo ricercata e insieme antica; complice l’uso dell’armonica, è pura poetica del bayou, un brano che fa respirare la lentezza del fiume, foglie morte e disperazione sociale. E poco male che questo quartetto venga dalla periferia di L.A.: il compianto Chris Cornell declamava “I’m looking California, and feeling Minnesota”, ed è proprio questo contrasto tra metropoli e provincia profonda ad aver sempre garantito onestà e spunti di interesse ai 16.