7.5
- Band: 16
- Durata: 00:44:18
- Disponibile dal: 15/07/2016
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Esistono diverse tipologie di band di culto, di cui almeno tre fondamentali: i precursori, che vendevano poche decine di copie, erano amati in una ristretta nicchia, prima di essere riscoperti e adorati globalmente (o quasi); gli incompresi, il cui successo di pubblico era analogo al caso precedente, ma con dalla loro il disprezzo della critica e del resto del pubblico. E infine le band soggette alla sindrome “Asso con poker di Re servito”; una carta ghiotta, ma che si trova ad essere adombrata da quanto il fato vi ha fatto trovare in mano. E’ questo il caso, sicuramente, dei 16, gruppo davvero seminale della scena sludge, in giro fin dal 1991, ma la cui carriera e rilevanza è stata inevitabilmente adombrata dai mostri sacri che si affacciavano contemporaneamente in quel di Nola e dintorni: Acid Bath, Buzz’oven, Crowbar e Eyehategod su tutti; quattro Re, appunto, considerati unanimemente i Maestri del genere. Eppure a distinguere la band di Bobby Ferry è stata probabilmente la sola provenienza, quell’assolata e spensierata Los Angeles che venticinque anni fa dava visibilità solo alle gozzoviglie edonistiche del glam e ad alcuni campioni del thrash, relegando in un angolo band così diverse. La premessa è un po’ lunga, ma il senso è uno solo: i Nostri giungono con questo “Lifespan Of A Moth” al settimo full length della loro carriera con coerenza, senza compromessi e risorti anche dalle ceneri di un breve split up. E lo fanno alla grande, mantenendo tutte le aspettative e le premesse distribuite in un quarto di secolo: suoni fangosi, cupi, disperazione nei testi e nelle linee vocali, che fanno dei 16 una perfetta sintesi delle band elencate più sopra. E se una band emergente con questo album ci avrebbe spinto agli applausi, in questo caso aggiungiamo anche il piacere di vedere perfettamente compiuto un percorso vitale e senza tradire nulla delle proprie radici. Le coordinate sonore sono quelle prevedibili, ma appunto perfettamente mature e prodotte alla grandissima; la cavalcata iniziale di “Landloper” si muove a tempo di demoni interiori con una sessione ritmica da torcicollo e stop-and-go da antologia; una specie di stomp che getta la sua ombra anche su brani come “Secrets Of The Curmudgeon”. In altri casi la cifra stilistica è la dilatazione quasi lisergica dei riff, appoggiata su una batteria decisamente virata verso il doom, come nella parte centrale di “Peaches, Cream And The Placenta” o in “Gallows Humor”, che nella cadenza sembra quasi omaggiare i maestri Candlemass. Non mancano poi rallentamenti ove l’ossessività diviene malinconia (“Pastor In A Coma”), ma la pietra miliare dell’album si chiama “The Absolute Center Of A Pitch Black Heart”: trascinante, brutale, a metà strada tra gli High On Fire e le sfuriate chitarristiche del miglior hardcore. Sicuramente, dopo i ritorni di Black Tusk e Graves At Sea, la Relapse inanella un terzo, grande album per gli amanti dello sludge/doom, per non dire un perfetto compendio di cosa ci si debba aspettare da questo genere.