8.5
- Band: 40 WATT SUN
- Durata: 01:07:30
- Disponibile dal: 21/01/2022
- Etichetta:
- Cappio Records
- Svart Records
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Patrick Walker , seduto nella sala d’aspetto lontana dai grandi riflettori, è uno di quei personaggi a cui si deve dare merito di aver instillato nel corso della musica pesante un impianto cantautorale di altissimo livello. Se coi Warning e col mitico “Watching From A Distance” si poteva percepire che una caratteristica fondamentale della musica erano i testi e le linee vocali di una malinconica bellezza specifica, è con i lavori soliti (legati al progetto 40 Watt Sun), e in particolare con lo splendido “Wider Than The Sky”, che le cose hanno preso la loro piega più autentica. Lo slowcore, o sadcore, dei grandi Red House Painters o degli American Music Club, ritrovato in terre britanniche e riscoperto nella sua semplice verità e autenticità.
“Perfect Light” tenta di bissare il precedente lavoro e ci riesce in pieno, scavando una crepa sempre più profonda da cui poter finalmente vedere un’alba, seppur lontana e ambiguamente speranzosa. La prima “Reveal” non compete in oscura malinconia con l’immensa “Stages”, in apertura di “Wider Than The Sky”, ma offre la sua luce più fioca, nebbiosa, come quella della copertina, in cui la voce calda e piena di Walker viene aiutata dalla voce angelica di Lorraine Rath che sembra accompagnarlo nelle sortite ultraterrene, e a cui la stessa voce principale si offre come compagno saldo. «Whetever herever you are, the light will reach./Oh, Ophelia, I’m strong enough to lift you up». Walker ha reclutato qui numerosi ospiti tra cui Andrew Prestidge e Roland Scriver (The Osiris Club), Ajit Gill (Vertaal), Lorraine Rath (Amber Asylum/Worm Ouroboros) e il pianista/compositore Chris Redman, che donano, seppur nel minimalismo antiretorico del lavoro, un tocco diverso dal precedente e, in certo qual modo, più vario.
Ancora una volta, naturalmente, questo è un lavoro puramente slowcore, contraddistinto da pezzi lunghi, ripetitivi, pieni di una malinconia che brilla come un diamante, conservando il tempo doom e ridefinendo la musica semi-acustica senza shock o particolari trovate sperimentali. «The level of my light is paler now./It is paling./Where peace and darkness divide,/I am beside you/in the tatters of my weaknes» si racconta nella seconda, ultraromantica ballad “Behind My Eyes”, trascinata da un e-bow diventato ormai marchio di fabbrica dei 40 Watt Sun. Sebbene la musicalità rimanga focalizzata su un minimalismo sparso, Walker crea alcune delle trame più lussureggianti della band fino ad oggi, come in “Until”, in cui sembra difficile, se si è nel giusto mood, non avere la pelle d’oca. Il lavoro chitarristico fornisce un sacco di colore con strimpellate semplici e pennate delicate mentre i tocchi di batteria forniscono peso e slancio sufficienti ad un pathos non forzato e mai fuori posto. La perla “The Spaces in Between” scorre morbida e suadente, la voce di Walker è di un calore disarmante, di un’umanità condannata a una stanza illuminata solo da un lume di candela. Un perduto Nick Drake metallaro che del doom ha conservato la forza espressiva ma non quella sonora, contemplando un minimalismo che guadagna forza e impatto giro dopo giro. Un pianoforte, infine, delicato e prezioso, che arricchisce gli arpeggi portanti, suggestionati da spazzole e dinamiche altrettanto pacate. Il testo, come di consueto, brilla di luce propria e – pur senza peculiari e sostanziali diversità da tutta quella miriade di inquieti romantici che cantano l’abbandono e i suoi derivati – fa davvero fatica a risultare scontato o impersonale. «I dare not now return for the roar of memories/Or to see how slight a trace we left of our lives/In another time, in another place/You are standing there/Above me/My head in your hands».
Nessun pezzo debole in questo disco, tutto brilla di luce propria e di luce riflessa, riuscendo a imporsi come grande prova di cosa voglia dire fare questo tipo di musica. Una luce perfetta, seppur a risparmio energetico, lontana dai riflettori, lontana dallo scontato delle produzioni contemporanee che devono per forza parlare di abbandono, morte e solitudine, lontano dai compatimenti solipsistici del cantautorato indie egocentrico da social network. Una luce che sgorga da una crepa nel muro e che mette in comunicazione l’alba di fuori con la candela della stanza dentro. Una luce calda e vicina.