7.0
- Band: ABBATH
- Durata: 00:39:01
- Disponibile dal: 25/03/2022
- Etichetta:
- Season Of Mist
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Da quando è iniziata la sua carriera solista, il povero Abbath ha fatto quasi più parlare di sé per i suoi capitomboli e per le condizioni psicofisiche non proprio eccellenti, ma con il terzo capitolo di questa avventura dimostra come – anche senza cambiare (nuovamente) le sorti della musica estrema – abbia sempre qualcosa da dire.
Terzo disco, appunto, e sappiamo come, solitamente, si tratti per ogni band di un passaggio cruciale, tra una manciata di opzioni ormai consolidate: il disco della consacrazione, un tentativo di focalizzazione di quanto proposto in precedenza, un fallimento delle aspettative. In medio stat virtus: per quanto ossimorico sia parlare di virtù con Abbath coinvolto, eppure principalmente “Dread Reaver” capitalizza quanto sentito finora e cerca di consolidare un approccio che sappia anche emanciparsi dal glorioso passato. La componente più epica e nordica degli Immortal, già trascurata nei precedenti album, viene lasciata completamente alle spalle, se si esclude una certa cupezza tragica in tracce come “The Deep Unbound” o nella conclusiva e peculiare “Dread Reaver”. Ancora una volta, qui vincono le sonorità più spinte e compresse, che confermano l’eterno amore di Olve per i primi anni Ottanta: ci sono cavalcate e momenti melodici da NWOBHM, l’adrenalina e e le benzedrine dei Mötorhead, ovviamente riffoni e ritmiche che paiono usciti pari pari dai dischi dei pionieri black/thrash. Se nel complesso è possibile imputare come unica, veniale colpa, la difficoltà di trovare appieno una direzione definita e forte, è evidente come l’onestà e la personalità di questo tormentato musicista riescano sempre ad emergere. Non poco del merito va dato anche alla line-up, non rimaneggiata dal disco precedente, anche grazie alla ripresa a bordo di Mia Wallace dopo un periodo di iato; non dimentichiamo che Abbath nasce bassista, e ha ben pensato di tenersi stretta una che alle quattro corde sa essere quadrata e incalzante. I pattern di batteria di Ukri Suvilehto sanno efficacemente trasformarsi da punti di slancio dei momenti più furenti e trash-inanti (“Scarred Core”, “The Book Of Breath”), ma anche favorire dei crescendo dal gusto più classico e puramente heavy (“Myrmidon”). In brani come “Dream Cull”, o negli assoli retrò che punteggiano diverse porzioni del disco, anche la chitarra di Ole Farstad ha modo di mettersi in mostra con buoni esiti.
Chiude il lotto, anche se non alla fine del disco, una forsennata e riuscita cover di “Trapped Under Ice”, a conferma di dove affondino le radici (e del buongusto) del nostro Corvo del Nord preferito. Avanti così, che male non fa.