7.5
- Band: ABBATH
- Durata: 00:38:52
- Disponibile dal: 05/07/2019
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Anticipato da tre singoli che ben rappresentano nelle loro sfaccettature il sound complessivo dell’album, Abbath torna tra noi con il suo secondo lavoro solista: “Outstrider”, un titolo che si presta a varie interpretazioni, tra l’orgoglio di ergersi a eterno paladino dei non integrati (“outsider”) e la rivendicazione di un cammino individuale percorso a grandi passi (“to stride”). Nessun dubbio sull’unicità del personaggio, anche se al tempo stesso il sound complessivo risulta più focalizzato e vicino, complessivamente, a quanto già proposto ai tempi degli Immortal – non a caso definiti in una recente intervista dal suo sodale (e autore dei testi) Simon Dancaster ‘una cover band’: il desiderio è quindi quello di rivendicare l’eredità di quello storico monicker, ma francamente, ci estraniamo dalle provocazioni atte a far guadagnare medaglie di merito o qualche copia in più, e preferiamo concentrarci sulla pura dimensione musicale. Nella recensione del precedente lavoro sottolineavamo la rilevante presa di distanza dal mondo mitico e glaciale storicamente afferente agli Immortal stessi, e ai loro fari indiscussi Bathory; colpisce quindi la scelta di riaffermare le proprie radici aprendo il lavoro con l’epico midtempo di “Calm in Ire (Of Hurricane)” e chiudendolo con un’ottima restituzione di “Pace ‘Till Death” dei Bathory stessi, un pezzo in cui comunque prevale la dimensione in the face rispetto a quella più magniloquente. I pezzi più tirati e ritmati, come “Harvest Pyre”, “Land Of Khem” o la convincente “Outstrider” riprendono le sonorità di “Winterbane”, il pezzo più trascinante e orecchiabile dell’album di esordio, mostrando però una maturità compositiva superiore. Contribuisce anche al risultato il fatto che la formazione sia completamente trasformata, e probabilmente meno costruita a tavolino rispetto a quanto avvenuto in studio ai tempi di “Abbath”; se il confronto con Kevin ‘Creature’ Foley, batterista sul primo album, o con il preponderante King Ov Hell sarebbe quasi impietoso in termini puramente tecnici, questa ci sembra una band più adatta ad assecondare le pulsioni di Olve, colpendo nel segno senza cedimenti, grazie a una sezione ritmica efficace e un chitarrista che sa pennellare senza problemi sia momenti solenni e oscuramente melodici (come su “Hecate”), che altri figli dell’eterno amore di Abbath per il black-thrash degli anni Ottanta (“Scythewinder”). Nel complesso, insomma, ci troviamo di fronte a un album più convincente del precedente, che nei suoi richiami al glorioso passato mostra personalità e un’attitudine più diretta rispetto a quanto proposto dal vecchio sodale Demonaz; chi vi scrive mantiene tuttora la sua preferenza per il brand originale, ma non possiamo che dirci soddisfatti di poter comunque ascoltare due band di qualità dalle ceneri degli Immortal.