7.5
- Band: ABORTED
- Durata: 00:40:04
- Disponibile dal: 15/03/2024
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Occorre essere mossi da un certo grado di incoscienza per rinnovare il proprio linguaggio e il proprio pubblico dopo quasi trent’anni di carriera, uno stile subito riconoscibile e un numero di dischi (tra EP, full-length e split) ben oltre la doppia cifra. Da quello, oppure dalla consapevolezza che, quando uno dispone delle giuste carte, anche le mosse più impopolari (specie agli occhi di una platea ‘difficile’ come quella death metal) porteranno a raccogliere buoni frutti.
È da “Retrogore” che gli Aborted non si guardano indietro, allontanandosi sempre più dall’immaginario medico-chirurgico (debitore ovviamente della lezione dei Carcass) che aveva saputo condurli ai vertici della scena grazie a dischi fortunatissimi come “Goremageddon” e “Global Flatline”; un percorso condito da atmosfera, modernismo e da scelte – vedasi l’accompagnare in tour gente come Lorna Shore, Suicide Silence e, fra qualche settimana, Carnifex – assai controverse per chi ne aveva sempre accostato il moniker a coordinate prettamente death/grind, e che oggi, con il nuovo “Vaults of Horror”, raggiunge forse la sua forma definitiva.
Un lotto di brani che inaugura il sodalizio con Nuclear Blast cavalcando l’onda di una tensione e di una frenesia che arrivano quasi a squarciare i muscoli, racchiuso da una produzione, a cura del noto Dave Otero (Cattle Decapitation, Vitriol, Wake), inquadrabile senza dubbio come la più bombastica e tirata a lucido della discografia del gruppo. Un vestito cucito su misura dell’odierna visione artistica di Sven de Caluwé e compagni, cui si aggiungono un comparto di effettistica/synth mai così integrato nella narrazione e – soprattutto – una vera e propria pletora di ‘carrambate’ da parte di alcuni frontman della scena death metal/death-core, ora più memorabili (Alex Erian dei Despised Icon sul singolo “Death Cult”, Oliver Rae Aleron degli Archspire su “The Shape of Hate”, ecc.), ora più superflue (Jason Evans degli Ingested su “Insect Politics”), ma sempre al servizio di un songwriting efficace e vitale come non accadeva da un paio di album a questa parte.
Intendiamoci, anche sui precedenti “Maniacult” e “Terrorvision” la proposta di quella che un tempo poteva essere identificata come una formazione belga – diventata internazionale in risposta ai numerosi avvicendamenti di line-up – aveva saputo convincere senza troppe difficoltà, ma qui il discorso si fa in effetti più interessante, per quaranta minuti di musica in grado di snocciolare una dopo l’altra le caratteristiche di un grande disco modern death metal. Ci sono scariche di blast-beat lancinanti, ma anche breakdown e affondi groovy lungi dal suonare piatti o poco dinamici; la tecnica abbonda, con un guitar work che nei momenti più concitati ricorda quasi quello degli Spawn of Possession (l’opener “Deadbringer”), ma questo non fa perdere all’insieme impatto e concretezza, a riprova dei valori tradizionali di un progetto nato comunque nel ’95; infine, si flirta con il black metal e le orchestrazioni, ma l’apporto di queste ultime non si traduce in ‘tastierozze’ scippate a Cradle of Filth/Dimmu Borgir, configurandosi piuttosto come un complemento subliminale che esalta e rafforza l’estetica dei pezzi, ognuno ispirato a cult del cinema horror (da “The Mist” a “Il signore del male”, passando per “La casa” e il secondo capitolo di “Hellraiser”).
Un lavoro che dapprima colpisce mediante un impianto sonoro vulcanico e una concatenazione di esplosioni/implosioni tremende, e che in un secondo momento, con il passare degli ascolti, rivela la propria ambizione e il proprio spessore offrendo una serie di dettagli accattivanti e arrangiamenti curatissimi, vera cartina tornasole dell’esperienza in sede di scrittura della band. Un ritorno efferato e convincente, quindi, proprio come vorremmo fosse sempre per il sequel/remake di una bella saga slasher. Un ritorno che legittima il desiderio del quartetto di rimanere al passo coi tempi, fugando lo scetticismo a colpi di qualità e carisma.