9.0
- Band: ABORYM
- Durata: 00:46:13
- Disponibile dal: 01/04/1999
- Etichetta:
- Scarlet Records
- Distributore: Audioglobe
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E’ l’alba del nuovo millennio quando i romani Aborym danno alle stampe il loro primo album, manifesto sonoro e programmatico del black metal più malato e intransigente, totalmente privo di compromessi quanto lontano dalla sudditanza (psicologica, prima che artistica) nei confronti degli stilemi classici del genere. La creatura di Malfeitor Fabban realizza un debutto praticamente perfetto, che si inserisce nel nascente movimento industrial black metal, del quale la band capitolina è precorritrice, insieme ai norvegesi Mysticum. E’ infatti sempre datata 1999 la svolta industriale dei Dødheimsgard con “666 International” e il violento quanto controverso “Rebel Extravaganza” della premiata coppia Satyr&Frost; altre band decideranno di lì a poco di intraprendere (con esiti non sempre felici) strade simili – ricordiamo gli Zyklon, seconda incarnazione degli Zyklon B, e i Thorns – ma nessuno di loro si avvicinerà mai, in termini di estremismo sonoro e di pensiero, a questo disco e, più in generale, alle prime produzioni targate Aborym.
La doppietta iniziale è composta da due tracce già presenti sulla demo “Antichristian Nuclear Sabbath”, uscita su nastro due anni prima: “Wehrmacht Kali Ma” e “Horrenda Peccata Christi”. Veniamo accolti da un assalto sonoro solo all’apparenza caotico, che unisce – grazie a una scrittura di livello altissimo – black metal e sonorità industriali, presente e passato, classicità romana e caos post nucleare. Se l’opener risulta (con le dovute proporzioni) leggermente più canonica, “Horrenda Peccata Christi” è un autentico tripudio di creatività, tra rasoiate feroci, inserimenti techno-trance e tastiere dal sapore gotico che creano un effetto epico e grandioso. E’ un sentimento drammatico e profondo, frutto della decadenza dell’antica civiltà romana, gloriosamente pagana, riassunto e immortalato dalle rovine poste in copertina.
Segue la cover allucinata di “Hellraiser”, brano originariamente realizzato dai Coil come soundtrack per il primo fortunato capitolo dell’omonima saga (e poi scartato, insieme al resto del disco, in quanto ritenuto ‘non sufficientemente commerciale’); qui possiamo ascoltare la voce inconfondibile del super-ospite del disco, quell’Attila Csihar che ricordiamo aver reso immortale la cult band dei Tormentor e che approderà successivamente nei Mayhem.
Il cantante magiaro supporta l’ottimo Yorga S.M dietro il microfono, occupandosi delle voci anche in “Darka Mysteria” e nella conclusiva “The First Four Trumpets”, inserendosi perfettamente nel maelström di questo lavoro, al quale regala un contributo che va ben al di là della classica ‘ospitata’. Una menzione a parte va a “Roma Divina Urbs”, cuore fiero e pulsante del disco, sorretta da un riff killer e da cori anthemici: nove minuti pressoché perfetti, una piccola suite che unisce elementi estremi e melodie classiche. E’ in particolare qui che capiamo come Aborym sia una creatura italiana non per semplici ragioni di ubicazione geografica, ma per personalità e attitudine.
Siamo ormai nella seconda metà del dischetto con l’harsh EBM che si tinge prepotentemente di techno-trance di “Tantra Bizarre”, la breve e particolarissima “Come Thou Long Expected Jesus“, quasi un intermezzo nella forma ma dal contenuto altamente provocatorio (tanto che all’epoca non mancarono le levate di scudi), che vede protagonista il mastermind dei Deviate Damaen A.G. Volgar. Chiudono un lavoro esplosivo, acido e di profonda rottura rispetto alla tradizione, la scheggia black-thrash “Metal Striken Terror Action” e la già citata “The First Four Trumpets”, frammento finale di questa granata post-industriale.
“Kali Yuga Bizarre” è una pietra miliare di un certo modo di concepire il black metal, profetico figlio sfrontato e ribelle di un’epoca non più ripetibile in termini di stato di grazia dell’arte, nella quale il politicamente corretto era ben lontano dall’underground estremo; un disco che non ha perso un grammo di incisività in questi (oltre) vent’anni di vita, capace di dare un’anima (benché nerissima) ad un genere tacciato – molto spesso a ragione – di non possederne alcuna: “Il mondo nero sta per cadere a pezzi / Fra le ombre dello Stige”.