9.0
- Band: ACCEPT
- Durata: 00:53:11
- Disponibile dal: 11/05/1989
- Etichetta:
- RCA
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No Udo, no Accept. Se siete degli accaniti sostenitori di questo ferreo binomio, allora potete tranquillamente smettere di leggere questa recensione. Chi scrive non ha alcuna intenzione di modificare a proprio uso e consumo la storia di una delle heavy metal band tedesche più importanti del nostro amato genere, ma semplicemente di rivalutare un disco strepitoso uscito al momento giusto, ma ingiustamente stroncato da tutti coloro che non hanno digerito la svolta mainstream intrapresa con il nuovo cantante David Reece. E’ quantomeno opportuno fare un passo indietro per chiarire le dinamiche che hanno portato alla realizzazione di “Eat The Heat”. Nel 1986 viene pubblicato “Russian Roulette”, capitolo contenente alcuni episodi di notevole spessore nel quale viene ampliato sensibilmente il lato melodico di un collettivo intenzionato a conquistare definitivamente i favori del mercato americano. Il successivo tour con i Dokken appare come la logica conseguenza di volersi giocare il tutto per tutto, svolta che non ha mai convinto lo zoccolo duro dei fan e che ha contribuito a raffreddare i rapporti tra il cantante, intenzionato a compiere il tanto auspicato ritorno alle origini, ed il resto del gruppo deciso a sposare i suoni cromati ed i monumentali chorus da stadio. Lo split, dunque, avviene in maniera inevitabile ma tutto sommato amichevole, in quanto lo storico frontman costituisce gli U.D.O. e, nella stesura dei testi del valido debutto “Animal House”, si avvale della collaborazione di Gaby Hoffmann, moglie del chitarrista Wolf. Nel frattempo, gli Accept non rimangono con le mani in mano e si mettono alla ricerca di un nuovo frontman, al quale spetta l’ardua impresa di non far rimpiangere il carisma e la presenza scenica del folletto di Wuppertal. La scelta ricade sull’inglese Rob Armitage, voce dei Baby Tuckoo, eterne promesse mai mantenute dell’hard rock britannico. I giochi oramai sembrano fatti: il nuovo collettivo intraprende le prime interviste promozionali corredate di foto ufficiali che annunciano la nuova line up, ma qualcosa non va per il verso giusto. Armitage è fuori dal gruppo ed i Nostri sono nuovamente costretti a ripartire da capo. Inizialmente sembra che l’ambito posto debba essere assegnato allo sconosciuto Michael White, ma l’intervento provvidenziale dello storico produttore Dieter Dierks consegna alla storia il talentuoso David Reece. L’estensione vocale del nuovo arrivato è notevole, figlia del miglior Rob Halford sommata ad una maggior duttilità nelle parti più melodiche. Ad onor del vero, quest’ultimo non contribuisce in maniera fattiva alle composizioni, già pronte per essere interpretate e date in pasto al pubblico americano. L’11 maggio del 1989 viene finalmente pubblicato “Eat The Heat”, il quale fa la comparsa nei negozi di dischi con due copertine e tracklist differenti, una per il mercato statunitense, l’altra per quello europeo. Nonostante sulla front-cover venga ritratta la formazione a cinque elementi con il nuovo chitarrista Jim Stacey, tutte le parti di chitarra sono state suonate in maniera impeccabile da Hoffmann, puntuale ed inflessibile come un chirurgo. L’estrema cura adottata nella produzione, a cura dello stesso Dierks, viene incentrata sulla meticolosa rifinitura di ogni dettaglio, di quali emergono in maniera cristallina il rullante, mai così riverberato, un corposo multistrato di chitarre e l’inarrivabile prestazione al microfono di Reece. La volontà di provare a fare qualcosa di diverso viene testimoniata da alcuni eccelsi episodi dal marcato appeal radiofonico, come “Prisoner”, meritevole di duellare ad armi pari con i migliori Bon Jovi, “Chain Reaction”, baciata da un’incedere a dir poco dinamico che confluisce in un gigantesco chorus, e l’accattivante “Turn The Wheels”. La cafonaggine traslata in musica di “Stand 4 What U R” non avrebbe sfigurato su “Turbo” dei Judas Priest, mentre l’enorme enfasi profusa dalla drammatica “Mistreated” mette in mostra un lato inedito del gruppo. Il marchio di fabbrica originario degli Accept non viene completamente sacrificato in favore della loro palese ricerca del successo in terra straniera. L’irruenza della ‘priestiana’ “X-T-C” esplode come una strabordante carica di dinamite, grazie ai perentori e vertiginosi assoli alle sei corde forgiati da un Hoffmann in preda al Sacro Furore. L’incedere marziale di “Generation Clash” prosegue con un’indiscutibile coerenza la tradizione dei mid tempo che hanno reso famoso il combo tedesco. “Hellhammer” e “D-Train” sono due autentiche mazzate sulle gengive che narrano il linguaggio dell’heavy metal più feroce e virtuoso, complice una prestazione collettiva capace di espandere la soglia della perfezione. La recente versione rimasterizzata pubblicata dall’infaticabile Hear No Evil Recordings include due tracce bonus, leggermente meno ispirate, dunque lasciate giustamente fuori dalla scaletta originaria, e la versione edit di “Generation Clash”, che nulla aggiunge ad un prodotto meritevole di essere rivalutato per ciò che è: un monumentale lavoro di metal melodico. Tutto il resto è niente, sono solo chiacchiere e distintivo.