6.5
- Band: ADAGIO
- Durata: 00:57:08
- Disponibile dal: 26/07/2017
- Etichetta:
- Zeta Nemesis Records
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Forti dell’entrata in line-up di Kelly Carpenter (Civil War, ex Iron Mask) alla voce, i francesi Adagio arrivano alla quinta fatica in studi dal titolo “Life”: semplicemente un album introspettivo con delle influenze etniche per quanto riguarda testi e alcune parti propriamente strumentali. Suonare prog sinfonico nel 2017 non è facile, ma i ragazzi ce la mettono tutta facendosi influenzare anche da ritmiche che richiamano alla lontana il djent e un utilizzo certosino della batteria da parte del nuovo arrivato Jelly Cardarelli. Il problema è che questo disco sa di passo più lungo della gamba e in molti suoi passaggi risulta essere quasi pretenzioso: nonostante infatti le tracce siano mixate in modo egregio e le composizioni siano belle intricate come ci si aspetterebbe dal genere, l’impressione è quella di un disco spostato tutto sulla compagine tecnica a discapito di quella emozionale e genuina. Un disco, insomma, troppo cerebrale e poco coinvolgente: la title-track è una conferma di quanto scritto sopra, nei suoi ben nove minuti di muscoli tecnici esaltati al massimo dal virtuosismo di Stéphan Forté (chitarra) e Franck Hermanny (basso), con ritmiche mai troppo sostenute che ballano dal symphonic al djent senza troppi problemi. La durata delle tracce è spiazzante: siamo quasi sempre sui sei minuti a pezzo, con una varietà sì ricca, ma che alla lunga annoia. Ciononostante, episodi significativi ci sono e meritano di essere citati: il singolo “Subrahmanya” e la successiva “The Grand Spirit Voyage” riportano il tutto a ritmiche più tipiche del prog metal che del djent, aiutando l’ascoltatore a riprendersi un attimo mentre viene subissato da fini tecnicismi della sezione ritmica e di chitarra/tastiera. Specialmente quest’ultima si prende un posto di tutta visibilità, nonostante si continuino a citare più e più volte band come i Meshuggah che arricchiscono sì, ma appesantiscono anche il suono rendendolo indigesto ai nostri padiglioni auricolari. Per fortuna, da questa traccia in poi, viene data piena possibilità al cantante di esprimersi: “Darkness Machine” e i pezzi fino a “Trippin Away” sono degni di attenzione per quanto riguarda velocità e la capacità di andare dritti al punto con il loro groove e le loro influenze orientaleggianti, elementi che rendono tali brani assolutamente la parte più interessante del disco. Insomma, “Life”, come già accennato, finisce per apparire come una sorta di occasione sprecata, specialmente considerata la caratura della line-up dellala band. Non stiamo sostenendo che si debbano evitare i tecnicismi in questo genere, ma, come dimostrato durante tutti questi anni, a volte la tecnica finisce per soppiantare quel desiderio genuino di farsi una scapocciata e magari di andare a leggere i testi di una band che, in effetti, sotto questo punto di vista ha decisamente qualcosa da dire. Gli Adagio segnano quindi un mezzo buco nell’acqua, nonostante la qualità della forma sia ineccepibile. Speriamo che si tratti solo di un passo falso all’interno della loro discografia.