9.0
- Band: AEROSMITH
- Durata: 00:34:31
- Disponibile dal: 01/05/1976
- Etichetta:
- Columbia
- Distributore: Audioglobe
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Gli Aerosmith: un gruppo di cui si parla da ormai quarant’anni, benché in termini non sempre lusinghieri. E’ nostra opinione, tuttavia, che sia necessaria la conoscenza di tutta la loro vastissima produzione al fine di non cedere a valutazioni affrettate: l’operazione, di per sé, sarebbe titanica, per questo il nostro interesse è volto principalmente a fornire una chiave di lettura utile a chi volesse approfondire autonomamente il discorso. La nostra disamina deve partire, dunque, da un criterio razionale di presentazione: non v’è disco migliore, per iniziare, di quello ritenuto il loro capolavoro, da noi come da altre fonti. “Rocks” è tanto la classica perla settantiana, un disco partorito sotto la spinta di muse tossiche e affetto da quelle smanie dissolute che a fondo hanno segnato molte produzioni coeve, quanto qualcosa di franco da certi cliché dell’epoca, come la dilatata voluttà masturbatoria applicata con individualismo estremo alla materia dei solos, nel loro caso mai eccessivi e sempre ben inseriti in contesti rigorosamente strutturati e compatti (trentacinque minuti scarsi per nove pezzi). I caratteri che risaltano maggiormente dall’ascolto di “Rocks” sono di certo il suo eclettismo assieme alla sua varietà: si tratta di un disco mai ripetitivo nella composizione e nelle fonti d’ispirazione, incapace di annoiare chiunque possa dirsi un sincero appassionato di rock’n’roll. Ogni pezzo è storia a sé, ognuno una digressione su qualcosa che ha affascinato il gruppo: i Rolling Stones in “Sick As A Dog”; lo sguardo ad alcune nuove realtà musicali nel proto-heavy metal di “Back In The Saddle” o nel taglio punk di “Rats In The Cellar” (l’accezione di “punk” è la medesima del rock’n’roll sparato e viscerale à la Dictato); la rilettura – infine – attenta e personale della tradizione musicale americana, aspetto che li avvicina negli intenti ai loro maestri Led Zeppelin, i quali fecero altrettanto con la tradizione inglese. In che altro modo potreste approcciare a una canzone come “Last Child”, se non considerandone l’estetica southern/soul? E cos’altro vi pare evidente in “Get The Lead Out” o “Lick And A Promise”, se non del boogie-woogie “scuoticulo” (perdonateci, parlare di rock ci rende dissoluti)? Potete, inoltre, descrivere una “Nobody’s Fault” senza pensare al blues posseduto di Jimi Hendrix plasmato in un pezzo gentile come un pachiderma allucinato? E’ chiaro che si tratta di spunti, dunque di considerazioni volutamente superficiali e incuranti della filosofia del gruppo, evidente ad un’analisi più profonda: ogni canzone è una perfetta conseguenza del pensiero di musicisti ormai maturi, che – senza precludersi alcun canale espressivo – amano incanalare le proprie pulsioni più viscerali attraverso esercizio di autocontrollo. Siamo coscienti che l’ultima, apparentemente, suoni come un’affermazione priva di senso compiuto, ma alla luce della storia della band diviene chiara nel suo significato: sapete, o lettori, come si sono formati gli Aerosmith? Dall’unione dei membri di punta delle band precedenti di Steven Tyler e di Joe Perry, incontratisi in una gelateria: se ai primi, assolutamente consci della necessità di un’espressione coerente e strutturata, mancava l’apporto flussocoscienziale della chitarra in perenne lieve fuori tempo di Mr.Perry, ai secondi, brucianti di fuocosa indole blues, mancava un elemento razionalizzante e catalizzatore. E’ così che sono nati brani continuamente in bilico tra tensione ed esplosione, dalle strutture imprevedibili e mai scontate. E’ così che a un riff sciatto e irriverente viene donata attendibilità dall’istrionismo spinto di Mr. Tyler, pronto ad emergere lucido dalla sua estasi tossica. E’ così che potete ascoltare un album che supera ogni epoca per fissarsi sulla pellicola eterna della storia del rock.