7.0
- Band: A.F.I.
- Durata: 00:33:57
- Disponibile dal: 03/10/2025
- Etichetta:
- Run For Cover Records
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La discografia trentenntale degli AFI “divisa est in partes tres”, direbbe Giulio Cesare. La prima parte – ovvero i tre album rilasciati nella seconda metà degli anni Novanta sotto l’egida della Nitro Records, etichetta creata da Dexter Holland e Greg K degli Offspring – è in tutto e per tutto riconducibile al classico hardcore punk: tanto furore giovanile, ma personalità ancora in divenire.
La svolta avviene nel 1999 con “Black Sails In The Sunset”, primo disco a vedere in formazione il nuovo chitarrista Jade Puget e preludio alla virata horror/dark melodic punk che sarebbe arrivata a maturazione nel trittico successivo: se “The Art Of Drowning” (ultimo lavoro su Nitro) è uno dei capolavori punk del terzo millennio, non da meno sono “Sing The Sorrow” e “Decemberunderground”, disco della definitiva consacrazione, capace di scalare le classifiche allargando lo spettro sonoro fino ad includere alternative, emo e new wave.
Da qui in poi inizia terza fase, calante, con dischi troppo modaioli (“Crash Love”) o privi di mordente (“Burials”, “Bodies”) con il solo album omonimo (soprannominato “The Blood Album”) in parziale controtendenza.
Arriviamo dunque ai giorni nostri con “Silver Bleeds the Black Sun…”, dodicesimo disco che segna un nuovo cambiamento nel look – dalla copertina rosa, dopo un tris in total black, ai mustacchi di Davey Havoc, divenuto una sorta di cosplayer di Fred Durst ma senza parrucca – pur non mancando i richiami, dal titolo all’eclissi, al passato della band.
Musicalmente parlando, la metamorfosi è completa e pressoché totale: là dove una volta il goth e la new wave erano il contorno distintivo di una matrice (post-) punk, ora sono la portata principale.
Se l’iniziale “The Bird Of Prey” può ricordare certe cose dei Placebo, dalla successiva “Behind The Clock” il percorso tracciato appare chiaro: The Sisters Of Mercy, Bauhaus, The Cure e Joy Division diventano il punto di riferimento, con le linee di basso di Hunter Burgan in primo piano a fungere da macchina del tempo trasportandoci nel pieno degli anni Ottanta, mentre il frontman scende di tonalità e la chitarra di Puget tratteggia i contorni con brevi ma incisive pennellate.
In ottica revival, non poteva poi mancare più di una strizzata d’occhio all’intramontabile Billy Idol così come ai The Cult (“Holy Visions”, “Ash Speck In A Green Eye”), ma in generale l’immedesimazione in questo tipo di atmosfere è totale, al punto che l’unica occasione in cui, tra synth e cori malinconici, trovano posto un pizzico dei trascorsi hardcore, ovvero “Nooneunderground”, stona un po’ nel resto della tracklist.
Una certa ripetitività di fondo, oltre all’effetto tributo fin troppo marcato, rappresenta il principale limite di “Silver Bleeds the Black Sun…”, ma il minutaggio contenuto rende comunque l’ascolto piacevole, e la totale adesione a certo mood rètro, compresa la trasformazione fisica di Havoc in un Tom Selleck del rock, contribuisce a riportare l’attenzione su una band che ultimamente si era un po’ adagiata nella sua zona di comfort.
