AGALLOCH – The Mantle

Pubblicato il 01/06/2024 da
voto
9.5
  • Band: AGALLOCH
  • Durata: 01:08:25
  • Disponibile dal: 13/08/2002
  • Etichetta:
  • The End Records

Spotify:

Apple Music:

Un cervo scruta il cielo plumbeo. Il suo maestoso palco di corna quasi si sovrappone ai rami spogli in lontananza. È una foto in bianco e nero, neanche nitidissima. Eppure sembra che da un momento all’altro dalle narici del cervo possa uscire uno sbuffo di fiato caldo, visibile in quell’aria che sicuramente è gelida. Sembra che sottili fiocchi bianchi stiano per scivolare giù dall’alto, per sciogliersi sul mantello pulsante dell’animale. Ma quel cervo non respira. Non si muove. Non solo perché è un’immagine fotografica, ma perché è una statua. È la Thompson Elk Fountain di Portland, in Oregon, un’opera dal grande valore simbolico per la città. La scultura, in bronzo, risale al 1900 e ha una storia recente piuttosto travagliata: danneggiata più volte (l’ultima durante le proteste successive alla morte di George Floyd), oggi non si trova più dov’era quando gli Agalloch la scelsero come copertina di “The Mantle” e, con ogni probabilità, non ci tornerà più. Il comune di Portland intende reinstallarla altrove, in un luogo non ancora precisato, dopo averla conservata per qualche anno in un magazzino.
Ad ogni modo, nel 2002 il cervo di bronzo è ancora nella sua sede originaria e gli Agalloch, che vivono proprio a Portland, decidono di omaggiare la loro amata città mettendolo sulla copertina del loro secondo album. Il primo, “Pale Folklore”, è uscito tre anni prima con una buona accoglienza, anche se non è propriamente ‘decollato’. È un disco strano, “Pale Folklore”: folk nell’animo ma con tempistiche prog; è black metal nel linguaggio, ma doom e vagamente ambient nelle atmosfere. Siamo dalle parti di “Bergtatt” degli Ulver, ma in una forma meno notturna nei toni, più ampia e soprattutto aggiornata nel sound. Tutti questi elementi vengono ricuciti insieme nell’album successivo – il secondo, appunto – con una capacità sartoriale nettamente più raffinata. C’entra in una buona misura la ricerca di influenze estranee al metal, soprattutto nel post rock (il chitarrista Don Anderson, oggi docente alla Washington University, ha dichiarato di essere stato enormemente influenzato dai Goodspeed You! Black Emperor), ma c’entra anche un modo diverso di pensare la musica, meno orientato alle composizioni strutturata e più alle atmosfere fluide, quasi immaginifiche. Nasce così “The Mantle” e questo album sì, prende il volo. Gli Agalloch diventano una band da tenere d’occhio senza aver mai suonato dal vivo una sola volta.
Cosa rende “The Mantle” così speciale? Di primo acchito, verrebbe da rispondere l’equilibrio, innanzitutto tra generi: black metal, post rock e neo folk fungono da vertici di un triangolo magico al cui centro esatto sembra esserci proprio “The Mantle”. Prendiamo ad esempio “In the Shadow of our Pale Companion”, secondo brano del disco. Un pezzo quasi camaleontico, in cui le varie influenze ribollono insieme emergendo a turno, ora nella forma di una chitarra elettrica votata più alla tessitura di atmosfere che alla ricerca del riff, ora nel protagonismo di una chitarra acustica che sembra quasi cantare una melodia fuori dal tempo; ora nell’uso della voce di John Haughm, che oltre allo screaming esplora un pulito capace di spaziare dal suadente all’ ecclesiastico, spingendosi in alcuni passaggi al canto gutturale. Difficile incasellare questi quattordici minuti di musica, la cui formula conserva ancora il profumo dell’inedito.
A nostro parere, la composizione di bouquet musicale è resa possibile anche del già citato approccio per immagini alla scrittura, che in quest’album brilla per spontaneità e ispirazione. Immagini che vengono, probabilmente, dai sontuosi paesaggi della Cascadia, ma che gli Agalloch hanno ricondotto anche ad un’avida ricerca cinematografica. A tale proposito, si notano nella fantasticazione strumentale “The Hawthorne Passage” (riferimento allo scrittore Nathaniel Hawthorne, uno dei grandi nomi della cosiddetta American Renaissance) alcune clip audio in lingua originale tratte da “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman e da “Il paese incantato” di Alejandro Jodorowsky.
Già questo interessante blend potrebbe bastare a fare di “The Mantle” un album che, pur non avendo definito un genere, sicuramente ha contribuito a codificare un modo di interpretarlo, almeno in un certo tempo e in una certa area geografica. Ma ce n’è almeno un altro, di ‘equilibrio’ degno di nota, e che potrebbe avere avuto un impatto sulle pubblicazioni atmospheric black metal degli anni a venire: quello tra antico e moderno, che per quanto sembri un cliché, in “The Mantle” assume una coerenza tutta nuova, ancora straordinariamente fresca a più di vent’anni dalla sua uscita. Le atmosfere selvagge, quasi primitive dell’album si esprimono con disarmante naturalezza entro codici contemporanei e attraverso un sound ancora attuale, come si nota già dai primissimi secondi di musica. L’album si apre infatti con dei colpi di timpano, che trasmettono un non so che di solenne e arcaico e che accompagnano, poi, tutto lo svolgimento dell’opener “A Celebration for the Death of Man”. A nostro avviso, proprio le percussioni giocano un ruolo non secondario nella creazione di queste atmosfere: ci viene in mente, ad esempio, il suono minimale che scandisce “The Lodge”, e che starebbe bene tanto in un rito sciamanico quanto su un pezzo dei Massive Attack.
L’equilibrio di “The Mantle” è il risultato anche dell’architettura dell’album – un sapiente alternarsi di pieni e vuoti che conferisce leggerezza perfino ad una struttura così imponente. In questo lungo viaggio al seguito degli Agalloch, si alternano senza strappi pezzi dal piglio più schiettamente metal (come “I Am The Wooden Doors”), digressioni strumentali, ballate (“You Were but a Ghost in my Arms”, triste storia d’amore che oscilla tra il gothic e il black), fino a voli che accarezzano il progressive (la già citata “The Hawthrone Passage”) e incursioni che rientrano appieno nel filone neo folk (“A Desolation Song”). Il risultato è un disco al tempo stesso stratificato e cristallino, dalla straordinaria carica poetica ed evocativa. Un disco di una bellezza talmente nitida e trasparente che, semplicemente, toglie il fiato.

TRACKLIST

  1. A Celebration for the Death of Man….
  2. In the Shadow of our Pale Companion
  3. Odal
  4. I Am the Wooden Doors
  5. The Lodge
  6. You Were but a Ghost in my Arms
  7. The Hawthorne Passage
  8. …And the Great Cold Death of the Earth
  9. A Desolation Song
0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.