8.0
- Band: AHAB
- Durata: 01:06:16
- Disponibile dal: 13/01/2023
- Etichetta:
- Napalm Records
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Il doom, si sa, ha i propri tempi: dilatati, pachidermici e mastodontici, indifferenti allo scorrere normale del tempo. Gli Ahab rispettano perfettamente questi parametri e tornano, a otto anni di distanza dal precedente “The Boats Of Glen Carrig” con un nuovo, intensissimo lavoro.
I quattro lupi di mare tedeschi, infatti, si imbarcano su un cargo battente ancora una volta bandiera Napalm Records e salpano sulla rotta del funeral doom ibridato da inserti progressivi e psichedelia, e lo fanno tenendo come bussola un ‘classico dei classici’ della letteratura a base di salsedine, ignoto e naufragi, “Ventimila Leghe Sotto I Mari” di Jules Verne. La stretta aderenza ad un concept letterario fa parte di quelle costanti che il gruppo ha sempre mantenuto tali sin dal primo “The Call Of The Wretched Sea” di melvilliniana memoria, ed anche stavolta apprezziamo la loro capacità di dipingere gli scenari abissali, le svolte improvvise della trama, il mostruoso leviatano marino o l’odio annichilente di capitan Nemo, con pennellate precise in sede di scrittura dei pezzi; processo in cui troviamo Daniel Droste (e la sua voce ora gorgogliante e ora melodiosamente pacata, ancora una volta, come nel singolo “Colossus of the Liquid Graves”) ed il chitarrista Chris Hector a scrostarsi di dosso la ruggine di tanti anni di lavoro in sordina senza però accusare apparente fatica nel corso dell’opera. Anzi, ci sembra di percepire in tutto l’album un entusiasmo rinnovato, in grado di fornire il combustibile necessario per affrontare ciascun pezzo (con una durata media negli standard del genere – quindi quasi mai contenuta) senza cali di potenza o tensione nella struttura dei riff o nell’armonia inusuale di voci sporche e pulite.
Andando ad analizzare più nello specifico questo nuovo capitolo, troviamo gli Ahab in grado ancora una volta di non arenarsi su lidi sicuri, pur mantenendo integro il proprio, granitico nucleo musicale: l’iniziale “Prof. Arronax’ Descent into the Vast Oceans” è un buon esempio in tal senso, con lo screaming abrasivo di Chris Noir degli Ultha a scartavetrare in maniera nerissima la superficie coriacea fatta di riff dilatati e assorti, arrivando quasi a tradimento a scompigliare gli otto minuti di canzone e portando una ventata di novità particolarmente efficace, proprio come l’eponimo naturalista francese della storia. Anche certe derive progressive di “The Giant” (più vicine ad un certo modo di sperimentare degli Enslaved, in altri ambiti) e la tendenza a sconfinare spesso e volentieri nella psichedelia di “The Boats…” sono ancora percepibili, declinate però in una forma altra, che appare qui più ispirata che nel passato – si fa per dire – recente, carica di significanti (il modo con cui questi elementi si collegano con la tetragona pesantezza del genere doom in “A Coral Tomb”) e significati nuovi (ad esempio le chitarre distorte e quasi orientaleggianti di “The Sea As A Desert”), mostrandoci una band che non ha mai smesso di volgere la propria prua verso altri orizzonti, che siano in questo caso le rovine di Atlantide o le profondità inesplorate degli oceani a latitudini esotiche. Questo non vuol dire però virare in maniera definitiva su altri emisferi: il particolare modo di reinterpretare i dettami del doom più funereo e opprimente, rintracciabili nei pattern di riverberi e batteria dilatati di Cornelius Althammer, sorretti dal basso di Stephan Wandernoth, sono sempre presenti – forse nuovamente con più enfasi, e si ascolti in proposito la tempestosa “Mobilis In Mobili” o il lungo viaggio allucinante di “Ægri Somnia” – appena sotto la superficie liquida delle canzoni, restituendo quella inconfondibile sfumatura personale che ha reso gli Ahab cari agli appassionati del genere e che deflagra impetuosa nel finale. La conclusiva “The Mælstrom” si scrolla infatti di dosso le vesti più contemplative e si mostra in tutta la propria, spietata bellezza: dodici minuti senza scampo di lentissimo, colossale funeral doom suonato col metronomo in grave, urlato nelle parti più tragiche e arricchito dalla voce caustica e ribollente di Greg Chandler degli Esoteric, particolarmente indicata per dare corpo al drammatico gorgo nordico sul finire del racconto.
“The Coral Tombs” racchiude in sè l’orecchiabilità e la voglia di sperimentare degli ultimi dischi, ma al tempo stesso costituisce una tappa di raccordo importante con la salmastra pesantezza degli esordi, riportando gli Ahab in quei ‘porti del doom’ da cui erano partiti, tornandoci cambiati e pronti per condurci verso nuove rotte. Affrettatevi a salire a bordo.