7.5
- Band: AIR RAID
- Durata: 00:37:28
- Disponibile dal: 24/02/2023
- Etichetta:
- High Roller Records
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Torniamo a parlare di ‘new wave of traditional heavy metal’ in compagnia degli svedesi Air Raid, i cui tre album attualmente disponibili sul mercato sono senza dubbio tra i più convincenti del suddetto filone, per via della sapiente combinazione di songwriting ben eseguito, gusto melodico e grinta tipicamente heavy metal. Anzi, in generale diciamo che il punto forte degli Air Raid sono proprio le strutture delle canzoni, dotate di un piglio notevole e di un indiscutibile capacità di farsi ricordare con piacere tra un ascolto e l’altro.
Avendoci lasciato quasi sei anni a bocca asciutta, ad eccezione del singolo “Demon’s Eye”, il nostro approccio a questo nuovissimo “Fatal Encounter” appare sin dall’inizio carico di curiosità, ma anche provvisto di una punta di scetticismo, data probabilmente dalle esperienze pregresse con altre formazioni analoghe, che dopo un certo tempo si sono come appiattite nella moltitudine di prodotti affini, sprovvisti però della giusta carica tecnica ed emotiva.
Fortunatamente, a parte la ganzissima copertina di stampo dichiaratamente anni ’80, i primi vagiti in concomitanza della opener “Thunderblood” sembrano sin da subito in linea col livello qualitativo cui gli Air Raid ci avevano abituato: una buona dose di cattiveria metallica abbinata ad un utilizzo delle melodie che strizza un occhio all’AOR, tanto headbanging e, soprattutto, un ritornello che prende e si pianta in testa senza fatica. Discorso simile anche per “Lionheart”, che tiene relativamente pigiato il pedale dell’acceleratore, per poi allentarlo nella successiva “In Solitude”, la quale fa sfoggio di un parziale sentore di malinconico, seppur sempre con lo sguardo ben puntato nella direzione predominante dell’intera opera – la cui durata peraltro si attesta su un minutaggio non eccessivo, in quanto i pezzi effettivi sono solamente sette, con in più un intermezzo strumentale neoclassico e una chicca di cui parleremo a breve; tutto come vuole la tradizione del periodo d’oro dell’heavy metal vecchia scuola, insomma!
“See The Light” è un prosieguo coerente e perfettamente composto, che di fatto non arranca e non cede in alcun modo terreno rispetto al resto della scaletta, tutelando la nostra voglia di headbanging e voce al vento, cui segue il sopracitato intermezzo “Sinfonia”, chiaramente ispirato al lavoro alla sei corde del Maestro Yngwie J. Malmsteen, degno idolo di un combo di musicisti determinati a mantenere ben saldo l’amore per un certo tipo di approccio al songwriting e alla valorizzazione solistica.
Ci avviciniamo alla parte finale con la più lunga “Edge Of A Dream”, se possibile ancora più ottantiana rispetto alle precedenti, per via di quella parvenza generale cadenzata e potenzialmente ficcante nel giusto contesto, come ad esempio la colonna sonora di un film americano dei bei tempi che furono. Molto più tetra e pessimista invece “Let The Kingdom Burn”, anch’essa dal ritmo preciso e pregna di una rabbia perfettamente udibile nell’interpretazione del vocalist Fredrik Werner, la cui ugola rappresenta senza dubbio uno dei punti di forza della produzione.
L’ultimo pezzo ufficiale è “One By One”, che riporta tutto su una dimensione di carattere quasi speed metal, come ben si addice a un brano non solo ‘conclusivo’, ma collocato dopo ben due tracce più lente, condizione che può diventare pesante nel momento in cui non si tira una bella sferzata al comparto ritmico, cosa che in questo caso è stata fatta con somma maestria. Tuttavia, abbiamo usato le virgolette poco sopra per un motivo, in quanto la vera conclusione è affidata ad una cover (rigorosamente in giapponese) della celebre “Pegasus Fantasy”, tema introduttivo dal gusto tipicamente speed rock dell’anime de “I Cavalieri Dello Zodiaco”, molto apprezzato da una moltitudine di metallari sparsi per il mondo e variamente riproposto all’interno di varie discografie, tra cui quella dei nipponici Animetal e degli italiani Trick Or Treat.
Sebbene abbiamo apprezzato la scelta di scrivere un album dalla durata contenuta, l’unico difetto effettivo – a parte forse una dose non così abbondante di aggressività musicale – risiede proprio nel fatto che, tolti cover e intermezzo, il tutto si esaurisce in appena mezz’ora, col risultato di lasciarci forse un leggerissimo senso di incompiuto, che si sarebbe potuto colmare anche solo inserendo un inedito in più. In ogni caso, si tratta di una questione che non inficia troppo sul nostro giudizio, volto in questo caso a premiare il quarto colpo messo a segno da una realtà tra le più convincenti della recente scena old-school.