8.0
- Band: ALEPH
- Durata: 00:74:15
- Disponibile dal: 15/01/2016
- Etichetta:
- Buil2kill Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
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E poi ci sono gli Aleph. Una band che senza passare attraverso intro e giri di parole decide che le atmosfere, le orchestrazioni, i rimandi e le citazioni le fa direttamente a discorso iniziato, a passi compiuti. Niente proclami dunque, o prese di posizione. Ci si assume la responsabilità di veicolare un’idea già a cose fatte, con consapevolezza ed un pizzico di incoscienza; soprattutto quando “Thanatos”, il nuovo disco dei bergamaschi, si presenta con quattordici (quattordici!) brani che mescolano death, thrash, progressive anni ’70 e psycho-doom, il tutto sotto l’egida di un mal celato amore per Celtic Frost, Opeth e Pink Floyd. Rischiare insomma, e chi non tirerebbe su un sopracciglio di fronte a una tale non accomodante tracotanza? Ma come spesso grazie agli inferi accade, la resa musicale prende le parole che noi mettiamo nero su bianco assieme ai nostri pregiudizi e le nostre impressioni pre-ascolto, li accartoccia e ce li fa ingoiare dopo averci tirato una coltellata nello stomaco ed aver ripreso la scena per un film tributo a Dario Argento. Perché “Thanatos”, amici, è un Signor Disco, di quelli che durante l’ascolto ti fan sentire a casa grazie a sensazioni conosciute (ma non riciclate) e allo stesso tempo ti obbligano a stare attento perché ogni cosa, ogni assolo, ogni cambio potrebbe portare novità o quanto meno inaspettate soluzioni. Sin dalla copertina che ci piace assai, il combo non nasconde il proprio amore per l’effetto soundtrack, omaggiando e inseguendo quei visionari che facevano il film dell’orrore in Italia (ma non solo) un quarantennio fa, e tale affetto permea tutto il full-length, pur non essendo assolutamente un effetto predominante. Anzi, potremmo dire chiaramente che se il genere di riferimento è il progressive death c’è comunque un continuo alternarsi tra questi brani che in una manciata di minuti sono capaci di passare dallo speed al dark alle composizioni più open minded dei citati Celtic Frost (e probabilmente avere la band di Tom G. Warrior come faro è l’unico vero punto inamovibile per il gruppo). Tutti gli strumenti sono a servizio del risultato finale, da una tastiera che non diventa mai protagonista ma connota le sensazioni prog-rock (sì, rock) in maniera magistrale alle gustose ed ispirate chitarre, passando per la sezione ritmica, personale e mai sopra le righe, in una summa che ci permette di ascoltare contemporaneamente “Suspiria” e roba tipo i Martyr. Canzoni come l’opener “The Snakesong”, “The Severed Skull”, la title track o “The Old Master” sono un esempio concreto di quanto detto (anche a livello d’immagine: andate a vedervi il video di quest’ultima), ma non ha qui molto senso parlare di singole song in quanto diviene essenziale la fruizione completa dell’intero lavoro, un incubo in due parti distinte (una meno onirica dell’altra, diremmo) che dividono i quattordici capitoli. Vorremmo dire che è un qualcosa per gli amanti dei Nocturnus, o dei Mercyful Fate, o dei Goblin, o degli Opeth o del progressive in generale, ma non lo facciamo; un disco così dovrebbero ascoltarlo un po’ tutti perché riesce in un piccolo prodigio, cioè mischia, osa, mette tantissimi ingredienti in pentola e quando il pericolo di ottenere un minestrone insipido e arrogante se non addirittura di fallire completamente era grande davvero, ci mette sul piatto settantaquattro minuti che scorrono in un baleno (e questo dovrebbe dirla lunga) e che ci sentiamo di ascoltare più e più volte, trovandoci sempre qualcosa di diverso. Mica poco davvero.