9.5
- Band: ALICE COOPER
- Durata: 00:40:51
- Disponibile dal: 25/02/1973
- Etichetta:
- Warner Bros
- Distributore: Warner Bros
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“Billion Dollar Babies” rappresenta tutt’ora lo zenith creativo della carriera già costellata di successi e scandali dell’icona per eccellenza dello shock rock, Vincent Furnier, alias Alice Cooper. Lui e la sua band mostravano all’America la sua faccia nascosta, perversa e malvagia nello stesso modo in cui anni prima avevano fatto i Velvet Underground, ma con in più una teatralità ed un gusto per l’orrido tanto invitante per i teenager quanto rivoltante per i genitori. Mai prima si erano visti spettacoli così intensi e mai dopo qualcuno riuscì ad eguagliarli, nemmeno i Kiss, che curiosamente videro la propria stella nascere nel momento in cui la carriera di Alice era in declino, e neppure Marilyn Manson che, molti anni dopo, si vide appioppato l’appellativo di erede del Nostro. E’ innegabile che quanto proposto da Alice Cooper era assolutamente nuovo, mai visto né sentito prima. Sul palco la strega Alice moriva su una sedia elettrica, impiccato o decapitato, per rinascere e tornare a mostrarci i demoni che si celavano dietro la faccia pulita degli Stati Uniti. Finché furono proprio i suoi demoni a fermarlo e a portarlo a un passo dalla morte. La strada per il successo era stata lunga e faticosa: solo dopo due album passati praticamente inosservati, infatti, la terza incisione del gruppo intitolata “Love It To Death”, aveva fatto emergere la band dall’underground, mentre i successivi “Killer” e “School’s Out” avevano rifinito il “personaggio” Alice. “Billion Dollar Babies” da un lato lo consacrò per l’eternità come uno dei più grandi rocker di sempre, dall’altro esacerbò le tensioni interne al gruppo, che si sfaldò poco dopo l’uscita del successivo “Muscle of Love”. Giù il sipario, quindi, con la teatrale “Hello Hooray”, capolavoro incentrato sulla solenne interpretazione di Alice che si sviluppa su un incedere epico ed avvolgente, con ritmiche più soffuse e sognanti rispetto a quanto ci si aspetterebbe da un brano posto all’inizio di un disco (discorso che verrà ampliato nell’altrettanto meraviglioso concept “Welcome To My Nightmare”). “Rapin’ and Freezin’”, al contrario, è uno scatenato brano rock’n’roll, più simile alle precedenti release della band, che ha la particolarità di scivolare verso un finale delirante dal flavour messicano. La successiva “Elected”, introdotta da un magistrale riff, è memore degli insegnamenti avanguardistici del maestro Frank Zappa nel proporsi come ideale slogan in una surreale campagna elettorale per diventare il Presidente degli USA. Il brano fra l’altro fu tra i primi a venir accompagnato da un videoclip dotato di una vera e propria storyboard, ben tre anni prima rispetto al famigerato “Bohemian Rhapsody” dei Queen. La title track è un perfetto esempio di hard rock granitico e ispirato, costruito su ritmiche zoppicanti sulle quali vengono disegnati i robusti riff di chitarra, il tutto condito da un cantato al di sopra delle righe che sfocia in un inaspettato duetto con Donovan (l’interprete della ballata freak “Sunshine Superman”). Un basso pizzicato e distorto introduce la grandiosa e acidissima “Unfinished Sweet”, canzone in gran parte strumentale sviluppata su un andamento schizzato, che la rende un’ipotetica colonna sonora da B-movie poliziesco. Altro giro ed altro classico, “No More Mr. Nice Guy” è un autentico dito medio contro il perbenismo imperante nell’America conservatrice di Nixon, un sing-along senza tempo che ancora oggi è un cavallo di battaglia dei live show di Alice. La country-oriented “Generation Landslide” smorza musicalmente i toni grazie ad un indovinato arpeggio di chitarra acustica che si scontra con la sardonica interpretazione vocale. Segue a ruota l’inquietante “Sick Things”, una horror song recitata con voce declamatoria, che pur essendo priva di tuonanti rullate e distorsioni chitarristiche riesce ancora oggi a ‘shockare’ grazie al suo mood perverso e alle sue liriche oscure. L’intermezzo pianistico “Mary Ann”, nel quale emergono reminiscenze beatlesiane (periodo “White Album”), sembrerebbe una semplice canzone d’amore, ma basta leggere il testo ambiguo per capire di essere rimasti intrappolati nei deliri di uno psicopatico che portano all’emblematica chiusura del disco, cortesia della sulfurea “I Love The Dead”. La canzone stupisce non tanto per la sua struttura, invero piuttosto pacata, quanto per le liriche che toccano l’argomento della necrofilia con una leggerezza davvero disarmante. Non ce ne voglia un autorevole giornalista del magazine Rolling Stone, il quale all’epoca criticò il pezzo per la sua “prevedibilità”, ma riteniamo che un brano riportante la frase “amo i morti prima che divengano freddi, la loro carne bluastra da stringere” non possa essere certamente tacciato di scontatezza. Se nel 1973 i Nostri furono molto vicini ad essere la più grande rock band del mondo: in gran parte lo dobbiamo a questo album, notevole testimonianza di come si possa comporre un masterpiece innovativo di rock americano. Da avere assolutamente!
Si ringrazia per la fattiva collaborazione Diego ‘Dr.Zed’ Zorloni