10.0
- Band: ALICE IN CHAINS
- Durata: 00:57:47
- Disponibile dal: 29/09/1992
- Etichetta:
- Columbia
Spotify:
Apple Music:
Ci sono due vie per affrontare un disco che ha segnato un’epoca: considerarlo un prodotto del suo tempo, annoverandolo tra i massimi esponenti del periodo in cui è stato realizzato, oppure approcciarsi ad esso come se fosse un’opera slegata dal tempo stesso; ebbene, qualsiasi strada si voglia intraprendere, “Dirt” avrà la fama del capolavoro assoluto.
Era il 1992, i Metallica avevano sdoganato la ‘musica dura’ solamente un anno prima con il loro album omonimo, aprendo le porte di certe sonorità a milioni di persone che non ne erano avvezze. Eppure qualcosa stava cambiando in seno all’heavy metal tradizionale, che continuava a sopravvivere ma stava per essere soppiantato, almeno temporaneamente, nei gusti degli ascoltatori, da qualcosa di nuovo: sempre nel 1991 e quindi in contemporanea al ‘Black Album’, uscirono dischi come “Ten” dei Pearl Jam e soprattutto “Nevermind” dei Nirvana, tra le massime espressioni di una scena, quella di Seattle, che esplose a livello mondiale proprio con queste due opere. Anche gli Alice In Chains avevano già esordito, l’anno precedente, con “Facelift”, un ottimo disco che però ha forse ottenuto più riscontri dopo che la band ha acquisito successo rispetto a quando è uscito, e si stavano accingendo a comporre il nuovo album, “Dirt” appunto, pubblicato nel 1992.
La formazione che entrò in studio poteva contare su almeno due componenti che, pur diversi tra loro, avevano un carisma fuori dal comune: Layne Staley, il cantante del gruppo, con la sua voce che decine di aggettivi non basterebbero a descrivere, vittima della sofferenza che nei suoi stessi pezzi declamava, e il chitarrista Jerry Cantrell, a quanto ci è dato sapere l’anima pratica della band. A completare il quartetto, fondamentali per la riuscita dell’impresa, il bassista Michael Starr, anch’egli personaggio tormentato con problemi di dipendenza da eroina, ed il batterista Sean Kinney. E’ in questo scenario che è nata una delle opere più importanti dell’epopea del grunge, un genere che riunisce band anche molto diverse fra loro e che a spanne può essere definito come una miscela di sfrontatezza punk, energia metal e melodia tipica del rock americano; nel caso degli Alice In Chains si può dire che la parte metal è mediamente più accentuata. Il loro album più rappresentativo si apre con l’attacco furioso di “Them Bones” e le urla di Staley ci fanno subito capire a cosa andiamo incontro: disperazione e rassegnazione. Si prosegue sulla stessa falsariga con la successiva “Dam That River”, altrettanto opprimente, mentre “Rain When I Die”, nella pesantezza dei suoi riff quasi doom, ha un sapore psichedelico. “Sickman” è schizofrenica e dissonante, uno dei pezzi più metal, e a tratti vicina ad alcune cose dei Soundgarden. “Rooster” è un crudo ricordo del padre di Cantrell e delle atrocità che dovette affrontare durante la guerra del Vietnam (anche il videoclip del pezzo è molto crudo e brutale). L’allucinata “Junkhead” e la title track affrontano in modo abbastanza chiaro il tema dell’eroina ed in particolare “Dirt” mette in evidenza il rapporto del cantante con la sostanza che lo sta distruggendo, con un canto straziante che sembra un lamento: “You, you are so special / you have the talent to / make me feel like dirt“. Si continua con “God Smack” e “Hate To Feel”, forse i due pezzi meno noti del lotto: la prima è contraddistinta da un riffing rock e da una voce meno aggressiva del solito, la seconda è contorta e claustrofobica. “Angry Chair” è uno dei pochi pezzi scritti interamente dal cantante ed è una sorta di cantilena tra il dark ed il metal. “Down In A Hole” ad un ascolto superficiale potrebbe sembrare un momento di quiete, in realtà è una ballata al tempo stesso struggente e nera come la pece (“Down in a hole, losin’ control / I’d like to fly / but my wings have been so denied“). Il disco si conclude con “Would?”, il pezzo sicuramente più conosciuto, anche perché apparso sulla colonna sonora di “Singles”, film simbolo di quell’epoca e di quella scena.
Un viaggio senza speranza, caratterizzato da una poetica commovente e da una incontrollabile forza autodistruttiva: Staley perderà la lotta contro i suoi fantasmi dieci anni più tardi, non prima di averci lasciato in eredità perlomeno altre due perle (“Unplugged” con gli Alice In Chains e “Above” con i Mad Season), la band continuerà a scrivere ottimi dischi fino ai giorni nostri, ma “Dirt” rimarrà per sempre l’opera che ha reso Layne immortale.