7.5
- Band: ALITHIA
- Durata: 00:47:23
- Disponibile dal: 26/10/2018
- Etichetta:
- Wild Things Records
Spotify:
Apple Music:
La prima cosa che colpisce degli Alithia è la vivacità dei ritmi, l’esotismo delle cadenze percussive, che da soli li pongono in una categoria a parte. È questo un primo punto di rottura con altre band della medesima generazione, dedite parimenti e ognuna con le sue specifiche idee a una rivisitazione di dettami progressive. Se è vero che incasellare il sestetto nel filone del prog moderno iper-contaminato non è un’operazione del tutto fuorviante, l’impronta stilistica della formazione australe incorpora elementi che vanno ben al di fuori dell’operato di altre realtà coeve come Leprous, Haken o Votum. Se i gruppi citati possono contare su un impatto chitarristico terremotante, gli Alithia agiscono da una prospettiva quasi opposta. Il talentuoso Nguyen Phambam intreccia fili sottili rimanendo in disparte, proponendo una distorsione ridotta ai minimi termini e un’interpretazione dello strumento volta a disegnare panorami ariosi e sereni, prendendo molto dalla fusion e, se vogliamo trovare per forza un paragone, frequentando strade di dolcezza non così dissimili dagli ultimi Cynic.
Il timbro sonoro lo danno le tastiere, che possono portarsi su lirici tappeti pianistici oppure, preferibilmente, allargarsi a dismisura e riempire ogni spazio con synth dal suono mai troppo freddo ed opprimente. Il tono generale è quello di un sogno beato che si presta a volte a sfumature malinconiche, rimanendo però di preferenza in una dimensione di positività scevra di zone d’ombra o contraddizioni, come raramente accade di percepire in contesti così cerebrali. Si diceva nelle prime righe della sezione ritmica: questa segnala in maniera lampante l’impatto del tastierista/percussionista Jeffrey Ortiz Raul Castro, che introduce con successo e senza stravolgimenti cadenze della musica latinoamericana, rinvenibili anche nel comparto vocale. Sia Castro che la voce principale di John Rousvanis denotano uno splendido retrogusto pop intimista, che non scade nella ricerca del chorus ad effetto e preferisce essere declinato in un raccontarsi chiaro e sincero, dove gli intrecci vocali e polifonie da musical possono esprimersi in piena armonia.
L’impostazione aperta delle canzoni, in alcuni punti così rarefatte da perdersi in un’azzurrina nebbia shoegaze-dreampop, ne rende non sempre facile la comprensione; nonostante l’alto tasso melodico, questo multietnico manipolo di musicisti non regala folate trascinanti, sing-along, stacchi memorizzabili in due-tre ascolti. È questo il motivo per il quale le canzoni, al di là di durate molto differenti, non esulano dalla caratteristica di essere delle piccole mini-suite a sé stanti, che nel ricorso a una misurata elettronica strizzano l’occhio alle atmosfere digitali e ‘aliene’ evocate dall’artwork. Sentimento e ricerca, cura del dettaglio e voglia di esplorare sono centrali in “The Moon Has Fallen”, specchio fedele dell’esuberanza che gli Alithia mettono in luce con ancora maggiore spavalderia e sicurezza dal vivo. Un pizzico di immediatezza – non tanta, intendiamoci, altrimenti il giocattolo si romperebbe – e di grinta potrebbero forse consentire il salto di qualità definitivo. Ciò non toglie che questo secondo full-length sia un’uscita di valore, importante per capire quanto il prog possa ancora dire di nuovo, senza dover ricorrere per forza a chitarre compresse o suoni altisonanti.