8.0
- Band: ALTARI
- Durata: 00:34:56
- Disponibile dal: 14/04/2023
- Etichetta:
- Svart Records
Spotify:
Apple Music:
Debutto di questa band islandese, “Kröflueldar” prende il suo titolo da una serie eruzioni vulcaniche avvenute in Islanda dal 1975, a quanto pare durate nove anni, e nove sono anche gli anni che ci hanno messo gli Altari a pubblicare quest’opera prima.
Sebbene il genere della band sia radicato ideologicamente nel black metal, possiamo dire di essere di fronte ad un album davvero inaspettato, che gioca con chitarre semi-pulite, non ha nemmeno un blast-beat (né un ‘tupatupa’) eppure riesce a generare un’inquietudine degna del più malvagio black metal. Di fatto l’approccio è quello, e l’Islanda si sente tutta: l’innesto è decisamente figlio del filone nero di quelle terre (e il riffing – quando c’è – parla chiaro). Un nero che non stinge nemmeno di fronte alle pennellate avantgarde, noise ed heavy metal con cui gli Altari si colorano per tutta la durata del disco (trentacinque minuti per sette brani), anzi: il colore va ad intensificarsi sotto momenti che ricordano tanto i Judas Priest quanto i Craft, tanto i Blue Öyster Cult quanto i Misþyrming, arrivando a suonare quasi come i Sonic Youth in diversi (e non sono pochi!) momenti. Diciamolo a chiare lettere: “Kröflueldar” è un discone, un album che osa moltissimo e lo fa senza suonare mai avventato, avendo qualcosa da esprimere per gran parte della sua esecuzione; ha un tiro eccezionale che non viene (quasi) mai meno e riesce nel difficile intento, viste le ambizioni, di rimanere un lavoro a tutti gli effetti di metal estremo.
La prima metà del disco è micidiale, ogni parte di chitarra cattura l’ascoltatore, e ad ogni giro sul lettore si coglie un qualche piccolo, ulteriore particolare: ci si accorge di qualche limatura, qualche dettaglio, un arpeggio in sottofondo, mentre le linee vocali, marce, lamentose, sottolineano il disagio quasi post-punk che gli strumenti delineano con le loro disarmonie. C’è spazio per molta sperimentazione: un brano cantato da una voce femminile estremamente artistica e noise (“Syruluður”, con rimandi che portano addirittura ai Cocteau Twins) , sprazzi di psichedelia come in “Leðurblökufjandinn” (a proposito di psichedelia: la copertina è disegnata dal chitarrista e cantante K.R.Guðmundsson, ad evocare l’idea di un vulcano che erutta, per restare nel tema dell’album), ci sono riff heavy metal – dicevamo, come nell’incipit di “Djáknahrollur” – e atmosfere settantiane, il tutto compiendo il miracolo di non andare mai fuori dalla carreggiata tracciata, quella di un disco metal sperimentale ed estremo.
Unica pecca, qualche leggero abbassamento di tono che avviene intorno a metà disco, giusto girata la boa, ma la band si riprende ampiamente sul finale, portando a casa un lavoro omogeneo e avvincente, che elabora le sue radici senza (apparentemente) strafare, suonando come una ventata d’aria fresca, anzi gelida. Speriamo solo che non si fermino qui, gli Altari, perché se questo è il primo disco potremmo vederne delle belle.