5.5
- Band: AMARANTHE
- Durata: 00:39:42
- Disponibile dal: 10/21/2016
- Etichetta:
- Spinefarm
- Distributore: Universal
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Quarto album in cinque anni per gli infaticabili Amaranthe ma anche – almeno per quanto riguarda chi scrive – prima battuta d’arresto per una band che fin’ora aveva collezionato da noi solo larghe sufficienze. Cosa è successo quindi? Perché questo voto così diverso dagli altri che demmo in passato? “Maximalism” è davvero tanto più brutto rispetto a “Massive Addictive” o “The Nexus”? Gli Amaranthe si sono buttati su un genere diverso e che magari ci sta sul culo? La risposta in realtà è sia sì che no. Nel senso che no, gli Amaranthe non hanno cambiato la propria formula finora vincente, però sì, stavolta hanno confezionato un album zoppicante sotto molti aspetti. La band continua difatti a proporci quel frenetico e frizzante mix di metal moderno, pop radiofonico, ricchi arrangiamenti e vocals estreme che così tanto successo le ha portato in così poco tempo; lo fanno però stavolta calcando troppo la mano sulla – peraltro preesistente – diversità tra le influenze prima citate, col risultato di impasticciare la proposta e di stirare un sound in realtà piacevole in troppe direzioni contemporaneamente. “Maximalism”, potremmo dire, rappresenta l’ulteriore esplosione di un sound già di per sé pericolosamente ampio, e la forza di questa nuova esplosione sembra aver creato alcune fratture e strappi nel tessuto musicale e nella credibilità della band. Tutto in “Maximalism” è dilatato e spinto all’eccesso: “That Song” ad esempio, singolo apripista dell’intero album, propone chiaramente di esplorare meglio i confini delle influenze pop che da sempre colorano la voce della bella Elize Ryd, lo fa però col brutto risultato di dar forma a una canzone sotto nessuna ottica definibile come metal, priva di impatto e in più solo artificiosamente memorizzabile. Ritmo ossessivo alla “We Will Rock You”, cori e controcori catchy ma privi di spessore e atteggiamento generale da supergruppo tra i più commerciali di MTV danno il quadro del brano: davvero gli Amaranthe sono diventati questo tipo di band? In realtà no, visto che qualche traccia più in basso troviamo “Fury”, che si occupa invece di stiracchiare il sound nella direzione dell’aggressività fornita dalle harsh vocals di Englund. Simil blast beat plasticoso di batteria iperprodotta, vocals praticamente solo distorte, pedale dell’acceleratore perennemente a tavoletta e vari inserti elettronici stordenti dovrebbero fare il loro sporco lavoro, ma di fatto creano solo un gran casino, senza peraltro avere nulla in comune col brano precedente. Insomma, la solfa l’avete capita… i pezzi pop sono diventati più pop, i pezzi duri sono stati estremizzati, quelli che avevano una base dance praticamente ora sono dei brani di musica disco… e tutto quanto sta nel mezzo e che quindi si salverebbe da questa distruttiva ‘operazione dilatamento’ è pure un po’ stereotipato, davvero troppo simile a quanto ascoltato negli scorsi album. “Boomerang”? Carina, ma se vogliamo una canzone di quel tipo preferiamo ancora ascoltare “Drop Dead Cynical”, di qualche anno prima. Il risultato è che l’album, come dicevamo, risulta proprio un po’ zoppicante: canzoni che funzionano e che troviamo anche sinceramente carine sono alternate a brani in cui la band ha spinto troppo verso un’unica direzione, oppure affiancate a qualche pezzo gradevole e funzionale, ma niente di più. Per il resto la produzione è ottima, le prestazioni singole come sempre su livelli molto alti. Insomma, alla fine sono sempre gli Amaranthe che il pubblico ha amato o odiato fino ad ora, solo più ingigantiti. Semplicemente, a nostro avviso, stavolta hanno esagerato.