8.5
- Band: AMEN
- Durata: 00:44:12
- Disponibile dal: 31/10/2000
- Etichetta:
- Virgin
Spotify:
Apple Music:
Non sarà ‘L’album più estremo mai uscito sotto una major’ – come da roboanti dichiarazioni dell’epoca di Ross Robinson, anche se verosimilmente Slayer, Pantera e Slipknot avrebbero avuto qualcosa da ridire a riguardo – ma è innegabile come il terzo album degli Amen, idealmente destinato a lanciare la band nel firmamento mainstream a rimorchio del carrozzone nu metal, abbia raccolto le briciole rispetto a quanto avrebbe meritato.
Formatasi nel 1994 come progetto solista di Casey Chaos, autore e compositore unico del debutto “Slave” uscito lo stesso anno, gli Amen catturano presto l’attenzione del già citato Ross Robinson, che assicura loro un contratto con la Roadrunner e convince il frontman a reclutare altri musicisti, tra cui spiccano Shannon Larkin (già dietro alle pelli per gli Ugly Kid Joe e successivamente nei Godsmack) e il chitarrista degli Snot, Sonny Mayo.
L’omonimo debutto su major esce nel giugno del 1999, ma la Roadrunner li scarica quasi subito visti gli scarsi risultati di vendita (specie se confrontati con il successo planetario di nove mascherati compagni di etichetta e tour), per cui, ancora una volta, a salvarli è il loro produttore, che assicura loro un deal con la Virgin; è così che l’anno dopo vede la luce “We Have Come For Your Parents” (omaggio allo storico “We Have Come For Your Children” dei The Dead Boys).
Nonostante la spinta di Robinson – all’epoca una sorta di Re Mida discografico, avendo contribuito a lanciare Korn, Slipknot e At The Drive In – e gli ottimi riscontri della critica, canzoni come “The Price Of Reality”, “Too Hard To Be Free” o “The Waiting 18” (scelti come primi tre singoli per il loro appeal più ‘commerciale’) non sfiorano neanche le classifiche in madre patria, ottenendo qualche riconoscimento solo in Inghilterra: il mix selvaggio di punk, hardcore e (nu) metal non incontra i favori del grande pubblico, e anche l’attitudine nichilista ed autodistruttiva dei cinque non riesce a bucare lo schermo, a differenza di quella di altre band dall’immagine più riconoscibile.
Peccato davvero, perchè a distanza di un quarto di secolo i due minuti al vetriolo di “CK Killer”, il climax anarcoide di “Justified” o l’alternative sotto MDMA di “Under The Robe” non hanno perso un grammo della loro potenza ritmica, grazie ad una produzione in grado di amplificare al massimo l’effetto ‘caos controllato’ rispetto al più grezzo disco precedente; similmente, pur non essendo Casey Chaos un compositore / paroliere in grado di competere con le migliori penne plettrate degli anni Novanta (Nirvana, Helmet, Rage Against The Machine, Nine Inch Nails e Marylin Manson, per citare solo alcuni dei pesi massimi), l’ululato di ribellione di “Refuse Amen”, la furia iconoclasta di “Dead On The Bible” o l’invettiva ‘no logo’ della già citata “CK Killer” mantengono tuttora la loro carica sovversiva a dispetto di testi scritti col pennarello a punta grossa. Perfino brani all’apparenza minori nell’economia del disco (“Piss Virus, “In Your Suit” o “Take My Had”) risentiti oggi spazzano via i Machine Head dell’epoca, per tacere del potenziale inespresso della conclusiva “Here’s The Poison” (forse la più accostabile al vituperato nu metal).
Figli illegittimi dei Black Flag tenuti a battesimo dal padrino dei Korn, gli Amen erano destinati a spegnersi come una miccia corta, vista anche l’attitudine senza compromessi nelle esibizioni live (chi c’era al Palavobis nel 2001 ricorderà uno show selvaggio insieme ai Mudvayne, di spalla ai nove mascherati nel tour di “Iowa”), ma in un multiverso parallelo “We Have Come For Your Parents” resta uno dei dischi-simbolo a suggellare la chiusura col botto del decennio più alternativo della storia musicale.