8.0
- Band: AMENRA
- Durata: 00:47:30
- Disponibile dal: 25/06/2021
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Chi ha avuto modo di incrociare il proprio cammino con quello della band belga già sa che certa musica è concepita davvero come rituale, come percorso volto alla catarsi, all’espiazione di colpe e al ricongiungimento con una qualche sorta di pace. Il ciclo dei “Masses”, nome con cui venivano chiamati, fino ad ora, gli album degli Amenra, giunge a compimento. Il nuovo disco dei profeti del post-metal, insieme al nuovo contratto per Relapse, inaugura una nuova stagione. I crismi, però, della musica dei fiamminghi, ci sono tutti. E non è forse di evoluzione musicale che si dovrebbe parlare, ma di radicamento ancora più forte ai propri stilemi. Massì, diciamolo pure: alla classica dinamica forte/piano post-metal. Anche perché la musica degli Amenra non ha mai brillato di particolare movimento, cambi, sperimentazioni o quant’altro. Incentrati, come sempre, sul frontman Colin H. Van Eeckhout, ma caratterizzati da una trascendente unità di intenti, i loro album sono sempre stati concepiti come punti di riferimento totemici e personali, un mezzo per elaborare il dolore individuale in un’esperienza catartica condivisa. L’intensità è quella che è sempre contata per loro, non i cambi, non le ritmiche, non le innovazioni al genere. I loro spettacoli dal vivo sono quasi atti di esorcismo comunitario che raggiungono una sorta di sublime esperienza extracorporea, spesso, infatti, legata all’immaginario del martirio. Dall’oscurità alla luce, dal dolore alla guarigione. E se musicalmente non è poi molto, a livello artistico e comunicativo è comunque qualcosa di extra-ordinario.
Come un monolite, un menhir che va osservato e contemplato, per quanto possibile, in silenzio, il nuovo lavoro è radicato in questo modello di espressività. E lo abbraccia come forse mai prima d’ora, ripetendo ancora il medesimo discorso musicale ma, in qualche modo, ampliandolo di contenuto e di spessore artistico. “De Doorn” (‘la spina’ in italiano) illumina la strada già scritta nel destino della band e lo fa con la totalità del cantato in fiammingo, inoltrandosi profondamente in quella forma di narrazione che è il Kleinkust, tradizionale forma di racconto che viene tramandata di generazione in generazione. Nel momento, dunque, di maggiore notorietà (arrivata grazie a singoli più trascinanti come “A Solitary Reign”, per capirci), la band di Colin Van Eeckhout, si inoltra a fondo nel proprio passato, nella propria tradizione e folklore, offrendo un disco che è principalmente concentrato sulla propria storia, sul proprio concept, sulla propria profondità culturale. E, naturalmente, la lingua – non certo alla conoscenza di tutti, diciamo – rende il tutto ancora più difficile da penetrare, ancora più esoterico, ancora più mistico. Forse la comunità della Church Of Ra pretende che gli iniziati abbiano un certo grado di concentrazione per immergersi nel magma distorto della musica, ma certo è che la scelta è coraggiosa. E del tutto appagante.
I testi sono poesia cimiteriale, sacrale, di forte tradizione ottocentesca, romantica e mistica e la stessa ricerca di traduzione diviene – in un’epoca usa e getta come la nostra – un’operazione che fa ancora più immergere nel discorso di “De Doorn”. Come si dice nell’epica “Het Gloren”: “Ricordo che per anni ho evitato il loro veleno / la loro bile la mia lotta, una crudele e lenta prova di dolore, / la pioggia amara / una vita ha lavato via a terra / ogni sforzo invano / per anni ho vissuto nascosto nella paura / e seppi allora / che tutto era perduto / che tutti erano chiamati a soffrire /a cantare lodi d’amore / della vita straziante / della notte / bagnata dalla luce della luna / non cantata che dai dolenti / ombre fugaci negli angoli / avvolte nel silenzio della morte”.
Caro Tanghe degli Oathbreaker riempie perfettamente gli spazi lasciati dal profeta voltato di spalle Van Eeckhout, che si lascia andare a moltissimi contributi parlati, narrativi, introduttivi, come nel mirabile finale che vale quasi tutto il disco. “Voor Immer” è infatti il punto catartico a cui si deve giungere dopo essere passati per il Calvario, iniziato con l’altrettanta esemplificativa opener “Ogentroost”, strutturata quasi specularmente alla fine del disco. Arpeggio, parlato, break distorto e climax. I suoni sono sempre ottimi, pesanti, annichilenti. Le parti atmosferiche sono cariche di intensità e occupano naturalmente maggior spazio che in passato, contribuendo alla narrazione. I break sono i soliti di sempre, opprimenti e viscerali, emblema del solito doom lento ed inesorabile.
“De Doorn” necessita di un’attitudine quasi spiritualista per l’ascolto, necessita di calma, concentrazione, ma non per coglierne chissà quali arrangiamenti particolari, essendo praticamente i medesimi di sempre stra-usati dappertutto, ma per coglierne la narrazione, il cuore e lo spirito. Per addentrarsi in un folklore, in una cultura, in un modo particolare di esprimere la propria arte. Un’esperienza, ancora una volta, che ci sentiamo di consigliare per davvero.