6.5
- Band: AMON AMARTH
- Durata: 00:42:59
- Disponibile dal: 05/08/2022
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Quando ci si accosta ad un lavoro di una band che alle proprie spalle ha una lunga carriera e gode del supporto di una larga fetta di pubblico, bisogna tenere a mente più di un fattore; e, nel caso degli Amon Amarth, poi, la questione si complica. Abbiamo davanti una formazione che, intelligentemente, ha puntato sempre tanto sull’immagine e sul merchandising grazie ad etichette importanti disposte a sostenerli, certo, ma il loro successo risiede nell’idea di aver sovrapposto l’universo ‘vichingo’ (con tutta la ‘presa’ che può avere questa tematica specialmente sulla fascia più giovane dei fan del metal estremo) ad un substrato sonoro death metal.
L’idea è stata e continua ad essere vincente considerando la popolarità raggiunta dagli Amon Amarth, tanto che all’interno del sottogenere musicale ‘viking metal’ (quello vero), nessuna band ha mai raggiunto neanche lontanamente tale successo. Non sempre, però, quest’ultimo è sinonimo di qualità: abbiamo decine e decine di esempi di gruppi che sfornano due, tre o quattro ottimi album e poi per decenni vanno avanti per inerzia perchè continuano a beneficiare di una fiducia incondizionata da parte dei propri fan. Da questo fatto nasce anche spesso il paradosso in cui gli album migliori di queste formazioni, prodotti nel periodo dell’affermazione, vendano meno copie degli album successivi (che non sono capolavori come le release precedenti) dal momento che la band ha ormai raggiunto una platea numerosa di ascoltatori. Nel 2022 gli Amon Amarth si inseriscono in questo contesto come una realtà che sembra ormai aver dato tutto ed il proprio meglio già tempo fa, ma il loro stile, la loro immagine (ed anche il loro spettacolo dal vivo) continuano a far presa più della musica in sé. Da un gruppo che ha fatto del proprio trademark una base death metal arricchita da melodie, immagini e testi ripresi dalla tradizione nordica, non si può chiedere innovazione stilistica ed originalità, perchè significherebbe voler snaturare tutto ciò che ha contribuito a creare il mondo Amon Amarth. Per concludere questa lunga introduzione, diciamo anche che con i gruppi storici bisogna essere critici e guardare al presente ed eventualmente al futuro, mettendo per un attimo da parte la nostalgia per i capolavori prodotti e senza rinnegare quel medesimo passato che ci ha fatto innamorare di loro.
Nella lunga discografia della band guidata da Johan Hegg ce ne sono, di dischi degni di lode: dal debutto “Once Sent From The Golden Hall”, in cui però la formazione non aveva ancora preso pienamente coscienza di voler unire la musica estrema a ridondanti tematiche epiche scandinave, al periodo d’oro indicativamente durato dal 2004 al 2011. Nell’ultimo decennio la band ha vissuto un po’ di rendita, specialmente con gli ultimi due album, non trascendentali, dalle influenze heavy metal di “Jomsviking” alla staticità compositiva e tematica di “Berserker”. Dunque la ‘bellezza’ di “The Great Heathen Army” risiede quasi in toto nelle sue aspettative, nella speranza (di noi fan) che abbia la forza di rievocare il vero spirito nordico della band. Purtroppo l’impatto visivo del nuovo album è devastante: la copertina è pacchiana a livelli ormai intollerabili – se questa è l’armata pagana allora l’armata Christi ha già vinto a tavolino senza colpo ferire; se poi pensiamo a quello che sta accadendo non lontano da noi con armate vere allora la cover diventa persino risibile. L’aspetto più importante che manca è quel alone misterico ed assolutamente serio che appartiene al mondo vichingo (e che era presente negli Amon Amarth ai tempi di “Fate Of Norns”, ma soprattutto del suo successore). Lasciamo finalmente la parola alla musica, l’unica che conta davvero: l’opener “Get In The Ring” in fin dei conti non delude; la produzione non fa gridare al miracolo, ma almeno dona la giusta pesantezza richiesta per il sound del combo svedese. Il brano è sufficientemente death metal ed è ritmato con intelligenza: la band si è ricordata che per creare un mood truculento ed epico talvolta non serve spingere i ritmi sull’acceleratore, ma bisogna fare l’esatto contrario. Il main riff è in classico stile Amon Amarth e costituisce la quadratura del cerchio, mostrando come l’inizio della release sia capace di riprodurre in qualche modo un riflesso del tanto amato “With Oden On Our Side”. Tocca poi alla title-track, un po’ meno esaltante rispetto alla canzone precedente per il riffing un po’ troppo stantìo in alcune sue parti. C’è la tensione di un’armata che sta avanzando minacciosa (evidentemente un’altra rispetto a quella della copertina…), qui sì che ci sarebbe stato bene anche un cambio di ritmo più veloce, invece il quintetto rallenta ed il finale suona un po’ ridondante. Peccato. La successiva “Heidrun” è bella ritmata e con un tocco epico in pieno stile ‘viking’ più che death metal. Arriva poi “Oden Owns You All” ed inevitabilmente viene di pensare all’omonima canzone (“Odin Owns Ye All”) dei Månegarm, una ‘vera’ viking metal band che stravince impietosamente il confronto. E lo vince per un semplice motivo: nel brano degli Amon Amarth non si sente la presenza mistica del dio Odino; l’avessero scritta ai tempi di “With Oden On Our Side”, il risultato sarebbe stato ben diverso, perché in quel periodo la band evidentemente era in connessione con il mondo dei propri avi e riusciva a coglierne gli aspetti più profondi, ora invece il legame si riduce ad una comparsata sulla copertina in stile armata Brancaleone. Questa è la differenza tra questo album (ed i nuovi) e quelli che hanno reso grandi gli Amon Amarth in passato. Persistono ancora, purtroppo, alcuni rimandi sonori vicini all’heavy metal che rendono un paio di pezzi più catchy, ma privi di qualsiasi trasporto emotivo. “Dawn Of Norseman”, invece, è un brano degno in quanto rispecchia appieno lo stile classico della band, mentre siamo sicuri che “Saxons And Vikings” sia talmente ruffiano da essere pensato esclusivamente per gli spettacoli live; e pure se in esso canta una leggenda come Biff Byford (che ha superato la settantina d’anni e sembra più in palla di tutti) dei mitici Saxon e la sua performance non si discute assolutamente, non si integra appieno con lo stile degli Amon Amarth (e anche qui rimpiangiamo il duetto con l’indimenticabile Petrov su “Guardians Of Asgard”). Meglio decisamente “Skagul Times With Me”, che conserva gelosamente un po’ di mistero nordico ed è uno dei brani più riusciti dell’opera. La dodicesima fatica su lunga distanza dei nostri Norsemen si conclude degnamente con “The Serpent’s Trail”, brano che sa di sincerità e che regala anche dei passaggi compositivi non proprio scontati; la canzone è bella cadenzata, ha un’atmosfera inquietante e si capisce che qui la band ha fatto un ragionamento senza andare con il pilota automatico. Ciò dimostra che, volendo, il combo svedese riuscirebbe ancora a dire qualcosa di interessante in futuro se solo si (ri)avvicinasse in maniera più profonda e convinta a quel passato così tanto decantato. Altrimenti anche su questi vichinghi svedesi arriverà inesorabile il Crepuscolo degli Déi.