7.5
- Band: ANAAL NATHRAKH
- Durata: 00:39:03
- Disponibile dal: 15/10/2012
- Etichetta:
- Candlelight
- Distributore: Audioglobe
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Sfruttando le pause tra nuovi progetti musicali (i trascurabili Suffer Well, ad esempio) e il suo lavoro di produttore discografico, Mick Kenney è riuscito a confezionare l’ennesimo album degli Anaal Nathrakh: il terzo degli ultimi tre anni. Il Nostro lavora a spron battuto, ma palesa costantemente una creatività straordinaria: “Vanitas” viaggia sugli stessi binari dei suoi egregi predecessori, senza mettere in mostra alcun calo nella qualità degli arrangiamenti o nella solidità delle canzoni. Certo, ormai lo stile Anaal Nathrakh è ampiamente codificato e con molta probabilità niente di quanto contenuto in questa nuova opera potrà davvero spiazzare i fan della formazione, ma “Vanitas” resta comunque un disco curato e sinuoso, tutto giocato sulla ormai pienamente collaudata alchimia tra chitarre zanzarose che passano agevolmente da affilate trame black a più scarni e groovy momenti death-grind che riempiono, debordando, l’orizzonte sonoro, e tastiere che (insieme a qualche tocco industriale) dipingono sfondi alienanti, a tratti colorandosi di tinte gotiche. All’insieme si aggiunge, con estrema sicurezza, la vocalità accesa di V.I.T.R.I.O.L., come sempre sospesa tra urla lancinanti e magniloquenti impennate in pulito, passando per tutto quello che vi sta in mezzo. Il valore aggiunto della proposta del duo britannico – oltre allo stile immediatamente riconoscibile – risiede in come vengono impostati i brani: una volta superato il primo impatto con questo sound altamente frastornante e lisergico, ci si accorge infatti che il gruppo ha concepito delle vere e proprie canzoni, con strofe e chorus ben definiti e delle strutture chiare e lineari. Insomma, soltanto la resa sonora complessiva è portata all’eccesso: queste sono canzoni che si lasciano ascoltare e decifrare senza sforzi immani, dato che regalano spesso e volentieri una melodia o appunto un ritornello in grado di essere memorizzati in breve tempo. Dieci episodi all’insegna di una continua alternanza tra velocità e robustezza, scatti nervosi e parentesi liquide, stilettate graffianti e lenti crescendo, separati da scarni intermezzi. Un disco dall’andatura elastica, che si affida ancora una volta a quella formula per la prima volta esibita su “Eschaton” e da lì in poi più volte rivisitata, ora aumentando la componente groovy (“Hell Is Empty…”), ora quella epica (“In The Constellation Of The Black Widow”), ora quella più prettamente black metal, per un semi-“back to the roots” (“Passion”). “Vanitas” si rivela una via di mezzo tra tutti questi lavori, offrendo di certo ben poco in termini di innovazione, ma denotando, forse anche più che nel recente passato, una cura per i dettagli e un’ispirazione davvero da grande band. Apice dell’opera, la conclusiva “A Metaphor For The Dead”, traccia più melodica e ritmata rispetto alle altre, nel cui chorus gli Anaal Nathrakh arrivano persino ad omaggiare Ruggero Leoncavallo. Una nuova dimostrazione di personalità, nel caso ce ne fosse stato il bisogno.