8.0
- Band: ANATHEMA
- Durata: 00:58:16
- Disponibile dal: 09/06/2017
- Etichetta:
- Kscope Music
- Distributore: Audioglobe
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Le coordinate che danno il titolo all’opener appartengono alla baia di San Diego; un rumore di risacca, forse un annegamento mancato, un uomo risale in auto e accende la radio; l’automobile in questione è quella che appariva abbandonata sulla copertina di “A Fine Day To Exit”, e il concept dietro questo “The Optimist parte tutto da lì: cos’è accaduto a quell’uomo misterioso? Queste undici tracce ce lo narrano con toni meno luminosi di quanto suggerito dal titolo, ma con un esito complessivo eccellente. Lontani ormai anni luce dal metal, l’undicesimo album della band di Liverpool mostra un’ulteriore evoluzione della loro ricerca, e fa dimenticare il mezzo passo falso del precedente “Distant Satellites”. l’autoradio a cui eravamo rimasti, dopo una breve citazione (che vi lasciamo scoprire) dà spazio a ritmi dubstep, che proseguono nella successiva “Leaving It Behind”, un brano perfettamente rappresentativo del nuovo corso degli Anathema: ritmato, quadrato, avvolgente. E gran parte del merito di questo, a parte gli inserti elettronici, va all’affascinante voce di Vincent Cavanagh, che qui torna centrale in diversi episodi, e al gran lavoro di John Douglas dietro le pelli. Questa dimensione progressive rock resta per tutto l’album in equilibrio con la loro anima più romantica, come già avviene nella seguente “Endless Ways”, ove non a caso restano in auge le derive elettroniche e le ritmiche dispari, ma la voce solista diventa quella di Lee Douglas. E il frequente scambio tra i due cantanti funziona eccellentemente: ancora un pianoforte, poi rafforzato dalle tastiere guida la titletrack, ma torna Vincent come voce principale, mentre Lee dona uno struggente controcanto ed entra in gioco la chitarra sempre più pinkfloydiana di Danny Cavanagh. In questa traccia è probabilmente riassunto lo spirito dell’intero lavoro: ‘Drive At Night / Dont’ Look Behind’, sono queste le due strofe di apertura e chiusura, e paiono esprimere bene anche il percorso della band. Che a seguire, con “San Francisco”, passa senza problemi a un uptempo strumentale giocato alla pari da Daniel Cardoso (tastierista ormai fondamentale nell’economia degli Anathema) e da John, in equilibrio tra synth pop e space rock. Questi apparenti salti danno inizialmente l’idea di un album disomogeneo, ma bastano un paio di ascolti per cogliere la ricchezza dei richiami tra i brani negli arrangiamenti e nei campionamenti, che vi porteranno a (ri)ascoltare questo lavoro solo per intero. Tocca così a “Springfield”, il singolo che ha anticipato l’album mostrando come biglietto da visita un bel brano dominato da pianoforte, basso e dall’eterea voce di Lee – sempre più erede di Anneke Van Giersbergen – e poi la più lenta e impalpabile “Ghosts”; qui sono ancora sugli scudi i fratelli Douglas e gli emozionanti paesaggi dipinti da Cardoso, mentre la seguente “Can’t Let Go” è puro Steven Wilson, ma con la personalità di sei grandi musicisti. “Close Your Eyes” è forse l’unico brano in cui, nonostante una cura notevole con anche derive jazz sul finale, si attenua un po’ la nostra attenzione, prima della grande doppietta finale. “Wildfires” è dominata dalle splendide modulazioni vocali di Vincent, appoggiate su un pianoforte ritmico fino all’ingresso delle chitarre sferzanti sul finale, che ci ricordano come il nucleo composto dai frateli Cavanagh sia ancora centrale nell’economia musicale della band; la conclusiva “Back To The Start”, come da titolo, riprende vari elementi già offerti nel corso dell’album: parte minimale, si evolve in forma di pomposa rock-opera e chiude alla perfezione un vero e proprio viaggio (fatto salvo il breve dialogo posto come ghost track). Un viaggio iniziato oltre quel parabrezza posto in effigie nel 2001, che musicalmente sembra lontano dall’essere concluso, ma che ha ormai degli straordinari punti fermi e un equilibrio raro.