5.0
- Band: ANNOTATIONS OF AN AUTOPSY
- Durata: 00:22:00
- Disponibile dal: 18/07/2011
- Etichetta:
- Siege Of Amida Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
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Conseguenza dei cambi di lineup o paura di aver perso il treno del successo? Onestamente, ci sentiamo di propendere più per la seconda ipotesi per spiegare questa nuova trasformazione degli Annotations Of An Autopsy. Del resto, in carriera i nostri hanno già più volte dimostrato di voler inseguire ciò che è trendy, partendo come gruppo death-core ultra groovy e ignorante ai tempi dell’EP e del debut, per poi spostarsi su un sound maggiormente death metal con il secondo full-length… guarda caso, proprio come una band affermata come i Job For A Cowboy (che, per intenderci, è sempre stata loro nettamente superiore in tutto)! Ora, dopo circa un anno e mezzo di pausa, che con tutta probabilità sarà servito loro per digerire il flop dell’ultimo disco, andato decisamente male, gli AOAA ritornano appunto con una nuova formazione e con uno stile ancora una volta rinnovato. Via i blast-beat e le velleità tecniche della precedente release; spazio invece a un sound iper compresso, a base di riffoni quadrati e ritmiche cadenzate, su cui si stagliano growling e gang vocals. La proposta di questo EP ha un taglio tutto sommato aggressivo, ma è sufficiente meno di un ascolto per individuare palesi richiami a realtà come Emmure, Oceano o The Acacia Strain, evidenti soprattutto in un pezzo come “Stage Breaker”, già dal titolo strizzante l’occhio a questa nuova scena di picconatori, il cui giovane e vastissimo seguito è al momento lungi dal dissolversi. Insomma, quasi superfluo ora mettersi a parlare di personalità o ambizioni artistiche… la band inglese punta semplicemente a ingraziarsi le simpatie di una certa fascia di pubblico con un compitino formalmente ben svolto, ma inevitabilmente freddo e sterile, identico in tutto a quanto già fatto negli ultimi anni da numerosi gruppi d’oltreoceano. Si sente una certa esperienza nella strutturazione dei brani, che di certo non procedono a caso, ma, ad ascolto terminato, complice anche la pessima cover di “Ten Ton Hammer” dei Machine Head, la voglia di soffermarsi ulteriormente su “Dark Days” è pressochè pari allo zero.