ANTHRAX – Persistence Of Time

Pubblicato il 01/03/2021 da
voto
9.0
  • Band: ANTHRAX
  • Durata: 00:59:26
  • Disponibile dal: 21/08/1990
  • Etichetta:
  • Island Records
  • Distributore: BMG

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L’anno è il 1990, e in retrospettiva verrà ricordato come il meraviglioso canto del cigno del thrash americano. Nel corso dell’autunno, solo per restare sui Big Four: i Megadeth sforneranno il loro capolavoro di tecnica e melodia (ovviamente ci riferiamo a “Rust In Peace”), mentre gli Slayer saluteranno per la prima volta Dave Lombardo ma solo dopo aver dato alle stampe “Seasons In The Abyss”, una sintesi perfetta tra i loro apprezzatissimi mid-tempo e i riff spaccaossa; quanto ai Metallica, sono reduci da due anni di tour mondiale, preludio alla svolta definitiva, per loro e per l’intera scena, che arriverà con il Black Album. E gli Anthrax, quindi?
Da sempre visti come l’elemento anomalo di questo poker, vuoi per la provenienza geografica, vuoi per l’approccio scanzonato, Scott Ian e soci hanno mancato la consacrazione con il precedente “State Of Euphoria”. Un disco che nessuno, nemmeno quando nel 1988 approdò sugli scaffali, si è mai permesso di definire brutto; eppure la netta polarizzazione tra pezzi molto più maturi e un menefeghismo sempre più coerente alla loro immagine di skater cazzoni non aveva proprio convinto in termini di vendite. Che direzione prendere, quindi? Per la prima (e non ultima, ahimè…) volta nella loro carriera, gli Anthrax scelgono la strada più facile: fare un passo indietro, riprendere a sfornare riff spaccadenti per buona parte del disco e concedersi il lusso di integrare le loro nuove passioni musicali solo verso la fine del disco, quando i detrattori più beceri arrivano magari ormai stanchi all’ascolto. Il risultato non delude, anzi, ed è ovviamente “Persistence Of Time”, un disco che esprime fin dal titolo e dal sottotesto del tempo, serpeggiante in diversi brani presenti, un’urgenza espressiva fortissima. L’album venderà molto di più del suo predecessore, ma non scalzerà mai dal podio, per la stragrande maggioranza dei fan della band newyorchese, i mitici “Spreading The Disease” e “Among The Living”; eppure “Persistence Of Time” è un disco-manifesto e di manifesta importanza, se ci concedete il gioco di parole; è assolutamente figlio del suo tempo e della carriera di ragazzi che sfiorano appena i trent’anni (anche se Belladonna ne dimostra sessanta dall’adolescenza…), ma che sono in giro da quasi un decennio; e inevitabilmente sentono la necessità di mettersi alla prova un po’ di più.
Lo scorrere del tempo è il protagonista della traccia di apertura, quella “Time” che è una dimostrazione della maestria da metronomo di Benante e della capacità del suddetto Belladonna di comporre liriche leggere ma che al tempo stesso facciano riflettere: sulla morte, sulla voglia di combattere ogni giorno e sulle paranoie di ciascuno di noi. Temi che procedono anche nei brani seguenti, le cui sonorità sono quadratissime e mettono in bella mostra la miglior sezione ritmica del metal, non ci giriamo intorno: non solo Benante dietro le pelli e il giocoso Frank Bello al basso, ma anche Scott Ian, il più talentuoso chitarrista prestato ‘modestamente’ alla ritmica che abbia mai calcato un palco. Così, a seguire, “Blood”, “Keep It In The Family” e “In My World” ripartono esattamente dagli echi di “Among The Living”, con però un tocco sanguigno in più. “Gridlock” inizia a mostrare un lato più cupo del quintetto: la ritmica serrata si apre in un paio di punti in puro stile stomp anthraxiano, e anche il piccolo grande Dan Spitz inserisce un ottimo assolo, ma il resto del brano è un pachiderma decisamente oscuro. “Intro To Reality” è un giocoso brano strumentale (a parte un’intro recitata) che fonde a meraviglia un arpeggio aperto e un riff semplice ma esaltante, prima dell’assalto di “Belly Of The Beast”: qui le chitarre ci riportano quasi a “Fistful Of Metal”, mentre le linee vocali danzano variegate, in una delle interpretazioni più calde e insieme cadenzate di Joey. C’è forse un’anticipazione di quel crossover assoluto che gli Anthrax stessi consolideranno l’anno dopo con “Bring The Noise”? Sicuramente non sono una band che è mai stata a guardare ai confini musicali, e non a caso a seguire troviamo una cover nientemeno che di Joe Jackson, fatta apposta per pogare ridendo, sperando di non farsi saltare i denti: e parliamo ovviamente di “Got The Time”, del basso tuonante di Bello che la guida e del flow che conferma la versatilità di Belladonna. Arriviamo così al trittico finale, dove senza stravolgere il sound della band, pure qualcosa cambia profondamente: “H8 Red” anticipa le stratificazioni e l’approccio insieme catchy che prenderanno corpo appieno nel disco seguente; “One Man Stands” è puro groove metal in largo anticipo, solo edulcorato, se così si può dire, da una voce melodica (e non lo troviamo una colpa, a ben vedere); a chiudere tutto la feroce “Discharge”, un brano violento e dal testo abrasivo, che sembra citare non solo nel titolo la nota band inglese, con la ciliegina di un ritornello melodico e adrenalinico.
Parafrasando un modo di dire, il resto è un’altra storia. “Persistence Of Time” segna la fine del Mark II degli Anthrax, e non certo con un’uscita insignificante: è la testa del frontman a saltare, che verrà sostituito da un mito assoluto della scena come John Bush. Il risultato? Magari ne parleremo in un’altra occasione, ma sicuramente si è trattato di una scelta estremamente divisiva, per il pubblico e per la continuità del loro sound.

TRACKLIST

  1. Time
  2. Blood
  3. Keep It In The Family
  4. In My World
  5. Gridlock
  6. Intro To Reality
  7. Belly Of The Beast
  8. Got The Time
  9. H8 Red
  10. One Man Stands
  11. Discharge
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