8.5
- Band: ANTIMATTER
- Durata: 00:56:21
- Disponibile dal: 09/11/2018
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Mick Moss ha un dono di natura invidiabile: una voce calda, che lo rende il perfetto narratore per la musica degli Antimatter. A questa voce, però, Moss aggiunge una serie di caratteristiche che lo elevano dall’essere solo grande interprete: polistrumentista, arrangiatore di classe, compositore sopraffino, paroliere profondo e, soprattutto, persona dalla grande tenacia, che gli ha permesso di prendere in mano le redini del progetto Antimatter senza essere offuscato dalla personalità più nota dell’ex-compagno Duncan Patterson. A partire dal primo album scritto in solitaria, lo straordinario “Leaving Eden” del 2007, fino ad oggi, Mick Moss ha dato forma ai suoi tormenti interiori attraverso un alternative rock malinconico dalle tinte dark, che spesso abbraccia la musica acustica come principale veicolo comunicativo, sfiorando però mondi sonori molti distanti, dal progressive all’elettronica.
Il settimo album in studio degli Antimatter, diciamolo subito, è l’ennesimo capolavoro di una discografia che non dà cenno di cedimenti. Per la composizione dei nuovi pezzi Mick Moss decide di cambiare il suo modus operandi, abbandonando la chitarra acustica in favore dell’elettrica e dei synth. Il risultato di questa scelta è un album stilisticamente diverso, che gioca molto di più su ritmi ed atmosfere inusuali, pur mantenendo la coerenza stilistica che lo incastona perfettamente nella discografia degli Antimatter.
Anche da un punto di vista lirico il cantante ha in mente un disegno ben preciso, raccontando una parentesi autobiografica particolarmente cupa e oscura della sua vita. I testi, infatti, si concentrano negli anni tra il 1991 e il 1996, quando Moss era caduto in una spirale discendente, fatta di abuso di stupefacenti, attacchi di panico e perdita di senso della realtà. Un’immagine rappresentata con forza dalla splendida copertina dell’album.
Tornando alle composizioni, la qualità media è altissima. Moss mette in musica delle composizioni variegate, spesso costruite intorno a giri di chitarra o di synth semplici, ma sempre perfetti e misurati, dove ogni nota è al posto giusto. E’ il caso del soprendente singolo “The Third Arm” o della splendida “Wish I Was Here”, brano delicato e sentito che ci riporta alla mente il capolavoro “Leaving Eden”.
Il nuovo metodo compositivo, come dicevamo, permette di sperimentare soluzioni diverse: le chitarre elettriche saltuariamente tornano a graffiare, come nella dura e spietata “Partners In Crime”, caratterizzata da un sound più cupo e pesante, o nell’eccezionale “Between The Atoms”. In altre occasioni sono le tastiere e i sintetizzatori a guidare le melodie, come nel caso di “This Is Not Utopia”, brano che strizza l’occhio agli anni Ottanta, al synth pop, con tanto di interventi di sassofono.
Non mancano momenti intimi ed acustici (“What Do You Want Me to Do?”), ma i passaggi più intensi sono in due composizioni, “Sanctification” ed “Existential”, in cui la musica cresce fino a raggiungere vertici di espressività incredibili, anche grazie all’uso di uno strumento a corde di origine persiana, il Qamancha, che trasporta l’ascoltatore in un viaggio lontano, quasi alla ricerca di una meta salvifica, una Terra Promessa che, invece, si rivela più vicino ai ‘paradisi artificiali’ descritti da Baudelaire. La seconda, poi, aggiunge una nota di malinconia aggiuntiva, grazie alla presenza della voce angelica di Aleah Starbridge, che continua a regalarci bagliori della sua vita mortale, ravvivando il rimpianto per la sua scomparsa così prematura.
Ennesimo capolavoro, quindi, inserito in un percorso che, ad oggi, non ha subìto mai scossoni o cali di qualità. Mick Moss ha aperto una pagina dolorosa della sua vita e l’ha messa in musica per coloro che amano scrutare nell’abisso più nero. Una gemma rara, preziosa e fragile.