6.5
- Band: ÅRABROT
- Durata: 00:37:43
- Disponibile dal: 03/10/2013
- Etichetta:
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Dopo aver vinto un Grammy Award norvegese e aver pubblicato due album bestiali uno di fila all’altro (ovvero il sanguinante “Revenge” e l’atroce successore “Solar Anus”), la truculenta e deviata compagine sludge-noise scandinava Årabrot arriva alla prova difficilissima della riconferma e in prima analisi non tutto appare però in ordine. Non che abbiano fallito alcunché, ma stavolta la band ha optato per un approccio ben più teatrale e colorito che in passato, e ha unito al suo solito magma musicale centrale fatto di Godflesh, Melvins, Unsane, Bathory e Stooges anche degli elementi più improvvisati e dal feel più sensazionalistico e altamente teatrali che non sempre lavorano a loro vantaggio. Parliamo prima di tutto delle voci, ormai in tutto e per tutto indirizzate su un’imitazione quasi becera dello stile nasale, paraculissimo e inconfondibile di King Buzzo, e che nel caso dei Nostri non sempre centrano l’obiettivo di risultare fresche e avvincenti, e una generale caoticità nelle composizioni, ormai rese del tutto imprevedibili e frammentate in uno spezzatino di momenti altamente contrastanti fra loro, fatti di surreali passaggi prog e simil-psichedelici di chiara matrice math-rock. Il lavoro tutto vede la primordialità e l’urgenza dell’hardcore e dello sludge che regnavano sovrani nei loro lavori precedenti, assai mitigati in favore di soluzioni più elaborate e complesse in cui noise rock, sludge, blues, prog e avanguardia pura creano fitte trame di astrattismo heavy in maniera non dissimile ma molto meno efficace da quanto fatto per esempio nello stesso campo dai grandissimi Oxbow. Alcuni momenti sono però innegabilmente davvero avvincenti, come quando in “The Bitter Tears of Knot” per esempio la band riesce a citare ottimamente la ferocia primordiale dei Neurosis di “Enemy of the Sun”, o come quando in “Drawing Down The Moon” riescono a interpretare in maniera splendida e personale il monolitico e sbilenco groove di “Honey Bucket” dei Melvins. Ci sono molti altri momenti positivi che costellano il disco come l’incipit di “Dedication”, perfettamente in grado di evocare le mazzate angolari dei Jesus Lizard, o “Arrabbalàs Dream” in cui la luce degli Unsane viene fatta splendere in maniera ancor più accecante attraverso l’immensa lente dei Black Flag per creare un effetto distruttivo quintuplicato per intensità e rovinosità. Insomma, di momenti positivi ce ne sono più che in abbondanza ma sono appunto momenti, sussulti intermittenti di un album cui manca una vera continuità e che è costituito per l’appunto da istanze di qualità separate da parecchi spazi vuoti. Totalmente da dimenticare, per esempio, il blues sbilenco e pagliaccesco di “Blood on the Poet”, dominata da una linea vocale davvero da insulti, o la opener “Ha-Satan Deofol”, che nel tentativo di evocare la follia e la maestria dei Tomahawk si perde invece in in un imbarazzante e vuoto citazionismo dell’inimitabile grandeur di “Flashback”. Senza considerare il fatto inoltre che la opener di un album è un appuntamento cruciale al quale si è sempre chiamati al successo e nel quale non è ammesso fallire pena ripercussioni sull’impressione generale del disco. Insomma, gli Årabrot hanno voluto strafare con questo nuovo lavoro e si sente più che bene. Che i vari Grammys, eccetera, eccetera abbiano dato loro alla testa?