8.0
- Band: ÅRABROT
- Durata: 00:57:05
- Disponibile dal: 09/04/2021
- Etichetta:
- Pelagic Records
- Distributore: Audioglobe
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Nella ridefinizione degli Årabrot da cruenta, delirante, entità noise, a quell’ibrido di rock incestuoso, parimenti destabilizzante ma assai più malleabile e digeribile nelle sonorità, quale è divenuto almeno a partire dall’album eponimo del 2013, l’elemento dirimente non può che essere l’unione d’amore e di arte tra il leader Kjetil Nernes e Karin Park. La musa di Nernes ne rappresenta il contraltare aggraziato a una mente, quella del leader, istintivamente attratta da sordidezze e dal lato perverso e deforme dell’esistenza. Quello che non è scomparso negli ultimi lavori, ma è andato piuttosto a miscelarsi e modificarsi in virtù della nuova situazione di vita di coppia e delle comuni aspirazioni del duo, da anni convivente nella chiesa sconsacrata della città natia della Park. In questa abitazione sui generis, ancora pervasa dalle atmosfere della sua funzione precedente, in larga parte adibita a sala prove-studio di registrazione permanente, la coppia ha delineato una sua peculiare visione della musica, che in occasione di “Norwegian Gothic” si identifica in un pensiero bicefalo, nella quale la Park pare dare un contributo mai così vicino a quello del compagno.
Se fino a “Who Do You Love” gli input creativi sembravano ancora piuttosto sbilanciati a favore dell’inquieto polistrumentista norvegese, ora la bilancia tra la cupezza, l’erraticità, la nevrosi di Nernes e la malinconia dolce, drammatica, sensuale della Park vanno unendosi in una speciale concordanza, dando il carattere distintivo di questo nono album del progetto. Sempre molto generoso in collaborazioni esterne e ospitate che portino un segno profondo all’opera, non soltanto a una firma in miniatura sulla cornice, la presenza di artisti come la violoncellista Jo Quail, Tomas Järmyr (batterista dei Motorpsycho), il polistrumentista Lars Horntvethil (Jaga Jazzist) infonde ampio respiro al disco, dandogli un gusto sinfonico-orchestrale decisamente sui generis (l’incantevole nenia d’archi di “The Rule Of Silence”, ad esempio). Le tastiere della Park sono il tramite principale per immergersi nel clima vintage-dark-gotico che funge da filo conduttore della tracklist, una costante effusione di poesia, in armonico contrasto al singhiozzare del mastermind, alle sue escursioni vocali, che si portano al parlato, insistono su toni declamatori, si colorano di dannazione ma, in prevalenza, non cedono alla scompostezza. La profusione di fiati colora di ambientazioni jazzate diversi episodi, tinteggiandoli di una fumosa patina di tempi e situazioni ineluttabilmente intrappolate nel passato (gli Anni ’30 di “Hailstones For Rain”).
Un colto, passionale eppur misurato struggimento vuole prendere possesso della pur sempre frastagliata anima dell’album, toccando i suoi massimi limiti di delicatezza nella performance per sola voce e tastiere di “Hallucinational”. Avente il suo brusco controcanto nella combattività punk di “(This Is) The Night”, rock diretto, verace, dove si scatenano le pulsioni istintive del personaggio-Nernes. Se invece si desidera assaporare il traboccare della passionalità del duo, quando va in simbiosi, duettando in un crescere di palpitazioni ed emozionalità, bisogna spostarsi su “Hard Love”, intersecante una prova vocale da brividi e archi taglienti, quasi dolorosi.
La parte finale della tracklist va quindi a sfumare nell’indefinitezza e nella sperimentazione, portandosi a morbide atmosfere notturne. Eccoci quindi al sinuoso agonizzare di “The Moon Is Dead”, con il sassofono a indurre un onirico dormiveglia, mentre la voce di Nernes va a perdersi, sgraziata e dolceamara, in una notte buia come non mai. Si potrebbero dire molte altre cose del nuovo Årabrot, indagare nel profondo quante sfumature si incontrino in ogni brano, raccontare della ricchezza di arrangiamenti, di come ricorra tutt’ora la pesantezza noise, nel tocco chitarristico e nel basso al piombo di Massimo Pupillo degli Zu. Quel che più conta, è la brillantezza del songwriting, la coesione nonostante il divagare di parole e musica in direzioni che apparentemente divergono diametralmente da una traccia all’altra. Un grande disco di rock contemporaneo in fondo, al quale viene difficile affibbiare altre etichette e al quale, per una volta, ci si potrebbe accostare senza timori di doversi scontrare con eccessivi intellettualismi ed eccentricità.