7.0
- Band: ÅRABROT
- Durata: 00:44:27
- Disponibile dal: 07/09/2018
- Etichetta:
- Pelagic Records
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Nelle campagne svedesi, all’interno di una chiesa, circondati da bibbie, pianoforti, organi, Kjetil Nernes e moglie, la tastierista e cantante Karin Park, si sono da tempo appartati, per inseguire le proprie pulsioni interiori e tramutarle in sofferta arte. La carriera degli Årabrot si è fatta chilometrica e ha seguito un andamento di parziale raffinazione, dalle scompaginanti invettive noise, disseminate di atrocità, dei primi lavori, al taglio istrionico e sperimentale, cantautorale e declamatorio, delle ultime uscite. “The Gospel” ha rappresentato un album iconico nella scena musicale degli ultimi anni, intriso di dolore, grandeur, disturbi e poetica di rinascita, conseguenza dei tormenti e delle paure vissuti da Nernes nel periodo appena precedente, trascorso a lottare contro un tumore alla gola. “Who Do You Love” spezza quasi completamente i legami con l’illustre predecessore, persistendo in un moto spezzettato e ondivago che asseconda ancora una volta la predilezione per i contrasti estremi del mastermind. Il suono mostra un’inflessione più sporca e acida, una scontrosità sprezzante che per gli Årabrot è motivo di vanto e può diventare anche causa di fastidio, disagio, dovuto ovviamente anche all’insistenza di Nernes per tonalità provocatorie, lamentose, cantilene nasali che sembrano voler stupire e accendere vibrazioni insane a tutti i costi. Il noise rock rimane il tronco da cui si dipartono numerosi altri rami, così come le inflessioni dark e gothic ammantano buona parte della tracklist e un caotico retaggio punk erompe a tratti, ricordando quanto possa essere tremendo il gruppo nelle fasi di pura aggressione.
Il singer-chitarrista, accelerando l’evoluzione recente della sua creatura, da un lato va a cercare l’orecchiabilità e la quadratura di una forma rock non per forza iper-contaminata, dall’altro osa sortite nella stramberia e in atmosfere spiazzanti, difficili da inquadrare e spiegare. Se sul piano delle intenzioni e osservando singole intuizioni presenti, la classe degli Årabrot emerge limpida, il songwriting ha una qualità intermittente, penalizzante paradossalmente la prima porzione di tracklist, mentre è nella seconda parte che si concentrano i pezzi migliori. “Maldoror’s Love” è paradigmatica di cosa sia un bel lavoro fatto a metà: il tema d’organo su cui si regge è azzeccatissimo, Nernes alla voce malato e inquietante il giusto, peccato che la canzone giri su se stessa, terminando di colpo senza che si sia evoluta dalle combinazioni di partenza. Molto meglio allora il giganteggiante basso di “The Dome”, con le nient’affatto vaghe reminiscenze sludge mitigate da tastiere dark-horror e una batteria che colpisce secca e dolorosa. Non convince nemmeno “Warning”, un confuso mulinare di colpi che presenta nel refrain curiosi, quanto invadenti, stilemi oi!. La nenia di “Pygmalion”, diretta da un impalpabile tappeto di synth e a totale appannaggio vocale di Karin Park, a sua volta non decolla mai del tutto, anche in questo caso suonando come una mezza incompiuta. Trascorso il breve spoken word musicato di “Serpents”, abbiamo finalmente una positiva svolta con “Sinnerman”.
Atmosfere da vecchio western introducono il baritonale di Nernes, che prende in mano la situazione con una narrazione da crooner country, cosparsa della sua inconfondibile drammaticità. Asprezza, sudiciume e malinconia si mescolano in un’essenza intensa, all’altezza della fama di decadenti aedi conquistata dagli Årabrot negli ultimi dischi. “Look Daggers” fa aleggiare lo spettro dei Goblin in apertura, quindi riporta in auge suoni scabrosi, rimbombanti, aizzando un’ariosità post-apocalittica di ottimo gusto. “A Sacrifice” è un altro brano di notevole fattura, giocato sul contrasto fra chitarre scabrose e orribilmente slabbrate e punteggiature tenui del pianoforte, investite dal crescente rantolare vocale di Nernes, perfettamente a suo agio quando c’è da accompagnare l’ascoltatore lungo il declivio che conduce dalla quiete alla catastrofe. Forte il cambio di rotta perpetrato in “Sons And Daughters”, tambureggiante ballata costellata di evocazioni infantili, probabile frutto dei teneri pensieri della coppia, da poco alle prese con la nascita di un figlio. “Uniform Of A Killer” si permette di ostentare rimandi sinfonici pronunciati, i saliscendi vocali verso il termine giungono a compimento di un racconto letterario-musicale angosciante, fragoroso in chitarra e basso, sensibile e conturbante nelle arie sinfoniche in secondo piano. Difficile tracciare il confine fra genio e provocazione pura e semplice con Nernes, “Who Do You Love” sta qualche passo indietro “The Gospel” ma conferma, almeno a intermittenza, l’unicità del combo norvegese.