8.0
- Band: ARCH ENEMY
- Durata: 00:35:46
- Disponibile dal: 21/05/1999
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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Per la terza volta in appena tre anni, gli Arch Enemy – qui nuovamente raggiunti dal batterista Daniel Erlandsson – tentano la strada di un thrash-death che non vuole essere soltanto aggressione e violenza. Scritto, registrato e prodotto poco dopo la pubblicazione di “Stigmata”, il nuovo “Burning Bridges” ripropone l’ormai tipica formula della band svedese, ovvero una sintesi esaustiva fra il background death metal del leader Michael Amott – che tutti ricordiamo in Carnage e Carcass – e marcati influssi classic metal che ormai da tempo fanno parte del suo bagaglio stilistico e di quello del fratello Christopher. Nel complesso l’affiatato sodalizio fra i due chitarristi non tradisce le aspettative dei numerosi supporter, consegnandoci un lavoro che non si distacca, per contenuti e atmosfere, dal materiale rilasciato in precedenza. Rispetto a “Stigmata”, tuttavia, è facile notare come il songwriting della formazione abbia assunto un taglio più rapido e scattante: se nel loro secondo full-length gli Arch Enemy avevano spesso osato con strutture piuttosto elaborate, allungando la durata media dei pezzi e riprendendo certi spunti più volte per dare alla tracklist un tono più avvolgente e narrativo, con “Burning Bridges” si torna ad un impatto maggiormente immediato e a scheletri mai troppo lontani dalla classica forma canzone. Dal punto di vista strettamente strutturale, i circa tre anni che distanziano il debut “Black Earth” dalla nuova opera si accorciano all’ascolto di quest’ultima, annullando in pratica quanto avvenuto con “Stigmata”. Restano comunque al proprio posto la perizia e la confidenza maturate dagli Amott in tema di assoli e orpelli di natura chitarristica: l’incipit di quasi tutti i brani è teso e ruggente, ma puntualmente anche al riff più lacerante tocca farsi da parte per lasciare spazio ad un mutevole duello di assoli, tra grandi sfoggi di tecnica e un’epicità in vero un po’ tronfia. Gli Amott qui vedono avverarsi il desiderio di poter fare sempre ciò che gli pare e piace, tanto che non è raro imbattersi in scambi e botta e risposta che arrivano ad occupare praticamente un terzo della durata complessiva del pezzo, per buona pace di climax più furiosi o concessioni alla potenza più schietta. In ogni caso, oltre alla chiara mania di protagonismo dei due fratelli, “Burning Bridges” mette sul piatto anche una tracklist che, nella sua brevità, riesce a risultare subito gradevole e digeribile. Al di là dei suddetti assoli, il lavoro in sede di riffing convince sin dall’esplosiva opener “The Immortal” e più in là va sottolineato come sporadici lampi acustici e l’inaspettata e sentitissima chiosa doom della title track riescano ad animare ulteriormente una formula già di per se collaudata e coinvolgente. Insomma, non siamo alle prese con della musica fuori dagli schemi o con qualcosa di difficilmente catalogabile; di certo, tuttavia, gli Arch Enemy riescono a dimostrarsi ancora una volta abili compositori e strumentisti d’eccezione. In questo ispirato terzo album, anche Johan Liiva prova a compiere un salto in avanti, abbandonando in parte il tozzo growling adoperato sin qui (spesso simile a quello di Nicke Andersson su “Clandestine”) in favore di uno screaming più duttile e acido, vicino per certi versi a quello caro alla scena melodic death metal. Con “Burning Bridges” gli Arch Enemy gettano sul tavolo tecnica, ispirazione, intesa e soprattutto un sopraffino bagaglio di esperienza, confezionando un disco orecchiabile che pretende di essere ascoltato tutto di un fiato. Fra una “Dead Inside” e una “Seed of Hate”, sorgerà spontaneo stabilire il contatto con l’anima più melodica di questi musicisti e, soprattutto se si hanno a cuore i maestri del metal anni Ottanta, risulterà inevitabilmente emozionarsi.