6.5
- Band: ARCH ENEMY
- Durata: 00:49:09
- Disponibile dal: 22/08/2005
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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Dall’ingresso di Angela Gossow negli Arch Enemy, il ritmo compositivo del padre-padrone Michael Amott ci mette di fronte a una nuova release ogni due anni circa (anzi, una all’anno, considerando l’EP “Dead Eyes See No Future”, datato 2004 e teso evidentemente a ricordare la presenza sul mercato della formazione svedese). In queste occasioni ci siamo abituati a sentire certe premesse, che ora appaiono perfino superflue da ribadire. Argomento principale: l’amata/odiata sostituta di Johan Liiva. Per alcuni l’affascinante singer tedesca è quanto di meglio gli Arch Enemy potessero sperare di esibire dietro il microfono; per altri è stata la causa della rovina, colei che con le sue grazie ha abbindolato il buon Michael, rubandogli buona parte della leadership e condizionandolo pesantemente in favore di scelte musicali meno complicate (non si contano quelli che si sono immaginati gustose scenette, in cui il truce ex chitarrista di Carcass e Carnage veniva ammonito senza appello dalla “soave” voce della compagna, dominato senza ritegno e ridotto a un poco onorevole “zerbinaggio”). Accantonando le ipotesi tragi-comiche che scavano, spesso senza certezze, sul versante personale, conviene limitarsi ad analizzare i fatti, almeno in questa sede. Un fatto è che ormai non si può più fare a meno di considerare la carriera degli Arch Enemy scissa in due ere distinte, ora pari nel numero di lavori pubblicati. Che la band dei fratelli Amott abbia effettivamente conosciuto due periodi ben diversificati, è enfatizzato dal differente orientamento dei fan: molti l’hanno abbandonata dopo “Burning Bridges”, altri l’hanno conosciuta ed amata con “Wages Of Sin”. Ma sono stati ben rari i casi di ostinazione nel cercare di trovare una linea comune fra la ‘fase Johan’ e la ‘fase Angela’. Pochissimi riescono a vederle come un continuum: questo perchè, di fatto, la proposta del gruppo è mutata considerevolmente nei suoi connotati, perdendo e guadagnando alternativamente. Il terzo full length dell”era Gossow’ arriva a proposito per stabilire in che misura perdite e guadagni si siano distribuiti nel bilancio presto decennale del quintetto svedese. “Doomsday Machine” segue “Anthems Of Rebellion”, che nel 2003 fu accolto su più fronti come il miglior prodotto della nuova epoca, specie se paragonato al precedente “Wages Of Sin”. Dispiace constatarlo, ma “Doomsday Machine” mostra una non trascurabile regressione rispetto al suo predecessore, in special modo considerando l’aumento della semplificazione sia musicale che degli interventi vocali. Pur vantando musicisti di prima grandezza nel panorama estremo, il depauperamento di idee efficaci non accenna a diminuire ed è macroscopico se confrontato con i lavori più datati. Si ha la sgradevole sensazione che le scelte di campo siano già state fatte a loro tempo, e in maniera piuttosto definitiva, a quanto pare. Ormai sarebbe fuori discussione pensare alla proposta d’oggi come a una naturale evoluzione di quanto fatto in precedenza. “Doomsday Machine” presenta un lotto di undici brani, di lunghezza media, prodotti come si conviene a un progetto simile da Rickard Bengtsson e da Andy Sneap. Rispetto ai vecchi album si nota una ricerca che va nella direzione del groove – possibilmente inquietante e cupo – della lentezza e delle cadenze midtempo, ma non tutte le composizioni sono omogeneamente ispirate. Infatti, la creatività sembra latitare da parecchio in casa Arch Enemy. Il virulento thrash-death delle origini appassisce in un eterogeneo, a tratti persino confuso, rimescolamento delle coordinate del metal ottantiano (tanto caro ai fratelli Amott e qui profuso a piene mani negli orientamenti delle chitarre) e in un vago tentativo di estremizzazione, così mal assortito nelle sue sfuriate da sembrare decisamente poco meditato. Ricchezza compositiva e novità sono le due grandi assenti del platter, inoltre la lentezza lo fa sembrare un disco senza mordente; a ciò si aggiungono le linee vocali di Angela, alquanto banali e monotone. L’impressione generale è quella di una band che tende a ripetersi (almeno da un po’ di tempo a questa parte) e che in questo caso ha mascherato con composizioni ineccepibili dal punto di vista tecnico-strumentale la propria sostanziale mancanza di idee. Poco importa che alle parti prive di cantato sia concesso molto spazio, quando la loro opera consegue spesso un risultato pari ad aria fritta. Le chitarre indubbiamente sostengono tutto l’insieme, producendosi in aggressività dal sapore classico e in assoli ultra-melodici di grande respiro e sovente di ottima fattura, ma dalla fortuna alterna, in quanto spesso vanificano l’atmosfera oscura creata in precedenza. E il resto? Non bastano sporadici casi positivi come l’intro strumentale “Enter The Machine”, l’eclettica “Hybrids Of Steel” – volta a dimostrare, casomai ce ne fosse bisogno, tutta la perizia tecnica di Michael e compagni – o la coinvolgente “Mechanic God Creation” e la ben assestata “My Apocalypse”. Il resto sono un pugno di brani che non si sollevano dalla media e da una certa tediosità, rischiarati solo occasionalmente da cambi di tempo e alternanze atmosferiche che devono la loro efficacia alle solite chitarre, come accade nelle centrali “Carry The Cross” e “Skeleton Dance”. In chiusura, due monoliti piuttosto indigesti quali “Machtkampf” e “Slaves Of Yesterday”, suggellano una prova che lascia intravedere più ombre che luci sull’accidentato percorso degli Arch Enemy verso la gloria. Per non parlare del singolo “Nemesis” e di “Taking Back My Soul”, uccise da refrain di una pochezza disarmante e decisamente sconclusionate nonchè mal assortite, nonostante le ammirevoli masturbazioni sonore di Mr. Amott. All’ascoltatore è demandato, come sempre, il giudizio definitivo, ma questo “Doomsday Machine” acconteterà probabilmente solo gli stoici estimatori che si sono lasciati rapire dai controversi capitoli dell’era Angela.