6.5
- Band: ARCHITECTS
- Durata: 00:46:11
- Disponibile dal: 05/27/2016
- Etichetta:
- Epitaph
- Distributore: Self
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E’ un discorso ambivalente questo nuovo lavoro degli Architects, una pugno di emozioni che sembra voler entrare tanto nello stomaco quanto nella testa dell’ascoltatore, tra dritte scarrellate che trascendono il metalcore tout court andando a sfociare, attraverso innesti elettronici, in crossover estemporanei e a modo loro convincenti. Di certo fattisi ambiziosi, gli inglesi giocano con gli elementi, incrociano, si (re)inventano senza andare a cercare troppe alternative alla loro stessa storia. Un’opener come “Nihilist”, imperterrita per tre quarti ed improvvisamente smorzante se stessa, spiega un po’ come la band di Brighton vuole affrontare questo “All Our Gods Have Abandoned Us” ed il loro modo di suonare nel 2016, che poi, almeno concettualmente, non si discosta poi troppo dall’ultimo lustro. Con rudezza, ma non troppa, con aggressività ma non solo, con velocità eppure rivedendosi in arie atmosferiche che sanno ricordare tavolta più i Bring Me The Horizon che non gli stessi Architect di “Hollow Crown”. E se perciò la già citata “Nihilist”, decisamente fiore all’occhiello dell’intera composizione, accelera impazzita andando a sfiorare lidi di vecchia data e aprendo a sintetizzatori ed archi che saranno onnipresenti, pezzi come “Deathwish” o “Phantom Fear” pestano il pedale di una pesantezza vagamente catchy, della massa in opposizione all’agilità (toccando, c’è da dirlo, anche note melodiche troppe volte risentite), risuonando si grevi ma un po’ troppo impastati e ancorati al già visto, mentre già “Downfall” torna a dosare sapientemente pathos e sfregio, benché l’irruenza, la sfrontatezza, restano ancorate alla loro funzione di spettatrici e ad una sorta di proclama; ‘sappiamo come si fa ma sappiamo fare anche altro’, è ciò che sembrano dirci gli Architects oggi. E sebbene sappiano per l’appunto come aprire varchi verso mondi paralleli, i Nostri tendono ad inciampare in alcuni momenti che proprio per una sorta di ripetitiva ricercatezza risultano privi di mordente (“Gone With The Wind”, “All Love Is Lost” o la lunga “Memento Mori”, non male ma che soffre un minutaggio non gestito alla perfezione tra il sound da ballad elettronica iniziale e la parte dura, che tende a perdersi) e altri in cui si respira un’aria tutt’altro che malvagia (“A Match Made In Heaven”, “The Empty Hourglass”). Dalla sua, l’album non accetta compromessi, la sua struttura portante è tutt’altro che claudicante e non dispiace: da ascoltare più volte per arrivare a comprendere – ed eventualmente apprezzare – le intenzioni della band, “All Our God Have Abandoned Us” è consigliato a chi gli Architects già li apprezza o vuole conoscerli, e a chiunque interessino sfide con i propri orizzonti e le proprie aperture mentali, ma di certo non è un lavoro da archiviare dopo un paio di ascolti veloci.