7.0
- Band: ARCHITECTS
- Durata: 00:42:24
- Disponibile dal: 21/10/2022
- Etichetta:
- Epitaph
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Dopo la svolta radiofonica di “For Those That Wish To Exist” – album che ha fruttato loro qualche immancabile polemica da parte dei vecchi fan, ma soprattutto un primo posto nelle classifiche UK celebrato con la riproposizione dell’intero disco con una vera orchestra agli storici Abbey Road – c’erano pochi dubbi sul fatto che il nuovo lavoro degli Architects avrebbe seguito sul versante più ‘commerciale’. Preceduto dalle dichiarazioni quasi di scusa di Sam Carter (“sappiamo che questo album deluderà molte persone, ma è quello che sentiamo giusto per noi in questo momento“) e da un artwork a dir poco minimale, “the classic symptoms of a broken spirit” si presenta come un disco più vicino all’industrial rispetto al suo predecessore, con riff quadrati (“tear gas” ricorda “Sonne” dei Rammstein e “Closer” dei Nine Inch Nails) e i cori da stadio (nel senso dell’audience potenziale per cui sono pensati) di “spit the bone” e “domscrolling”. Non manca qualche momento più malinconico (“burn down my house”) o più ballabile come “living is killing us”, un viavai tra i Depeche Mode nelle strofe e un rave party nel ritornello, così come qualche reminiscenza del metalcore che fu: il singolone “when we were young” in questo senso è un po’ paraculo ma funziona, così come la conclusiva “be very afraid” spicca nella tracklist grazie alla presenza di breakdown e growl (nulla che i Bring Me The Horizon di “Sempiternal” non avessero già fatto dieci anni fa, a voler essere cinici). Come sempre a fronte di un cambiamento non tuttte le ciambelle escono col buco: “born against pessimist” scricchiola quando le chitarre lasciano il posto ai synth ed “all the love in the world” si regge in piedi più che altro grazie all’ugola del cantante, ma ci sono anche pezzi da Coachella come “a new moral low ground”. E’ evidente che l’intento degli Architects, arrivati a questo punto, sia quello di diventare headliner dei grandi festival, alla stregua dei già citati BMTH o dei Royal Blood: per il momento si devono accontentare del ruolo di prima spalla dei grandi nomi, dagli Slipknot ai Metallica, ma il potenziale sicuramente c’è e siamo pronti a scommettere che il prossimo disco sarà quello della definitiva consacrazione in questo senso.