6.5
- Band: ARCHITECTS
- Durata: 00:42:20
- Disponibile dal: 28/02/2025
- Etichetta:
- Epitaph
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Dopo aver rilasciato undici album in poco meno di vent’anni, gli Architects sono ormai un nome di punta della scena inglese che trascende il genere di appartenenza; eppure, nonostante la posizione da headliner e i riconoscimenti in classifica, la sensazione è che siano sempre un passo indietro nel derby con i Bring Me The Horizon. Per la verità, fino ad una decina di anni fa, ovvero fino alla prematura scomparsa del chitarrista Tom Searle, i Nostri erano uno degli esponenti più di spicco del metalcore britannico, non avendo pressoché sbagliato un album dall’ingresso in formazione del cantante Sam Carter. Successivamente, sulla scia della svolta pop di Oli Sykes e soci, anche loro hanno tentato con successo il salto nel mainstream: là dove “Holy Hell”, primo disco dopo l’ingresso in formazione del chitarrista Josh Middleton, si muoveva ancora nel solco dei predecessori, al contrario “For Those Who Wish To Exist” ha visto unire con successo alternative, electro-pop e nu metal, catapultando la band in cima alle classifiche nazionali. E’ con questo spirito che il successivo “The Classic Symptoms of a Broken Spirit” spingeva sempre più verso l’arena rock, sulla scia dei già citati BMTH e dei Parkway Drive, risultando tuttavia leggermente meno ispirato del suo predecessore.
Arriviamo dunque ai giorni nostri, con l’uscita di scena di Middleton (tornato a concentrarsi sui Sylosis) ed una raffica di singoli ad anticipare “The Sky, The Earth & All Between”, undicesimo album apparentemente destinato ad unire vecchio e nuovo corso con lo zampino dell’onnipresente produttore Jordan Fish, ormai sempre più calato nel ruolo di Ross Robinson degli anni Venti. Se “Seeing Red” rappresenta la perfetta risposta agli hater con un’ideale commistione di generi – tra breakdown, elettronica, cori di bambini che cantano ‘We only ever love you when you’re seeing red’ e l’immancabile ‘Blegh’ – allo stesso modo “Whiplash” e “Black Hole” riprendono l’aggressività dei tempi andati, tra riff meccanici e il growl di Carter, mediandola con ritornelli da stadio e finanche un inedito assolo dal retrogusto ottantiano.
In questo contesto da ‘ritorno al futuro’, spicca ancora di più il distacco con le sonorità pop-metal di “Everything Ends” (una sorta di outtake non troppo riuscito di “That’s The Spirit”) o il pailette-core di “Judgment Day” (cantato a due voci con la cantante statunitense Amira Elfeky), un pezzo che avrebbe funzionato molto meglio su un album di Poppy. Decisamente più riuscita la collaborazione con gli House Of Protection (nuovo progetto degli ex-membri dei Fever 333) nell’hardcore-hyper-pop di “Brain Dead”, così come funzionano tutto sommato bene “Landmines” e “Curse”, mentre qualche dubbio resta ascoltando “Evil Eyes” (dove lo spirito guida dei Deftones aleggia in modo fin troppo marcato) e “Broken Mirror”, altro pezzo electro-pop che scorre via in modo piuttosto innocuo.
Mai come stavolta il voto in calce è frutto di una media tra pezzi eccellenti, a partire dalla potente opener “Elegy”, ed altri decisamente più mosci, come la conclusiva “Chandelier”, un brano a metà tra Linkin Park e Sleep Token senza però l’immediatezza dei primi e la magia dei secondi: l’alfa e l’omega di un disco a doppia velocità, tentativo di tenere il piede in due scarpe riuscito però solo a metà.