7.0
- Band: ARCTIS
- Durata: 00:44:45
- Disponibile dal: 01/11/2024
- Etichetta:
- Napalm Records
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Comunque la si pensi dei talent show in stile “X Factor”, va riconosciuta loro la capacità di saper tirare fuori ad ogni edizioni dei prospetti quanto meno interessanti dal punto di vista musicale: come sempre poi la maggioranza finirà subito nel dimenticatoio, mentre qualcuno brillerà per una sola stagione ed una quota ancora più sparuta troverà la definitiva consacrazione.
Ebbene, non è un mistero che da qualche anno a questa parte la Napalm Records sia diventata una sorta d’incubatore simile per tante giovani band di belle speranze – molto spesso accomunate dalla presenza di una fanciulla dietro al microfono e sonorità di stampo moderno, contaminati con diversi sottogeneri – quali sono appunto i qui presenti Arctis, formazione finnica che attinge alla tradizione della propria terra declinandola però in un sound che si pone idealmente a metà tra gli Amaranthe e gli ultimi Within Temptation, con in più un pizzico degli Evanescence più recenti.
La scelta dei collaboratori in studio è emblematica sulla volontà di avere un sound boombastico – due su tre hanno lavorato, tra gli altri, con i Rammstein – ed in effetti il primo impatto con “I’ll Give You Hell”, “Remedy” e “Tell Me Why” unisce alla perfezione l’elettronica un po’ cafona della band di Elize Ryd con la raffinatezza mainstream di Sharon Den Hadel, in quello che potremmo definire come ‘pop metal’, a sottendere l’intreccio tra le delicate linee vocali di Alva Sandström e il riffing muscolare dei quattro strumentisti.
Una formula non certo nuova ma lucidata in ogni cromatura, dall’inno battagliero “WWM” alla più danzereccia “Fire”, con l’apice dell’immancabile cover (in questo caso “Bimbo” dei Lambretta, decisamente più noti nel Nord Europa) pronta per l’heavy rotation su Tik Tok.
Al netto dell’originalità latente, il tallone d’Achille è probabilmente il comparto ballad (“Frozen Swan” è scritta bene, ma davvero troppo scontata) così come una certa ripetitività di fondo, per cui arrivati alla fine dell’album l’entusiasmo iniziale è un po’ scemato, complice un lato B meno ‘effervescente’ rispetto ai brani posti in apertura (a partire dalla conclusiva “Theatre Of Tragedy”, il cui evocativo titolo prometteva qualcosa di più rispetto all’ennesima rilettura del canovaccio sentito finora).
Nulla di male, comunque, per un pubblico cresciuto a pane e playlist: ai posteri l’ardua sentenza se sarà vera gloria o l’ennesima meteora, nel frattempo un discreto debutto per gli amanti del pop distorto ma non troppo.