7.5
- Band: ARÐ
- Durata: 00:43:22
- Disponibile dal: 18/02/2022
- Etichetta:
- Prophecy Productions
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Se c’è una nicchia temporale in cui un certo doom venato di struggente epicità si rintana sempre volentieri, quella è scolpita nella pietra del Medioevo.
Nelle rovine dei castelli accarezzate dal passaggio di innumerevoli secoli, nei massi ricoperti di muschio dimenticati ai margini di foreste silenti, è lì che si rintana infatti la musica degli Arð (‘terra natia’, in antico inglese). Il debutto del progetto di Mark Deeks dei Winterfylleth (di cui comunque si sentono degli echi anche in questo lavoro) è profondamente intriso dell’aria arcana della Northumbria, regione a Nord-Est della Gran Bretagna, culla di monasteri, leggende, poemi in dialetti arcaici, stravolgimenti e conquiste in grado di influenzare la storia dell’isola intera. Così, tra l’abbazia di Lindisfarne, le gesta dei regni di Mercia e Deira, San Cutberto e strascichi dell’influenza romana, “Take Up My Bones” dipinge con tinte calde e baritonali un affresco, lungo appena quarantatre minuti, che non ci stanchiamo mai di rimirare: sorretto da un’impalcatura imponente di cori a metà tra atmosfere da primi Borknagar, canti monastici e il motivo di Khazad-dûm nella colonna sonora de “Il Signore Degli Anelli” (“Raise Then the Incorrupt Body” o “Only Three Shall Know”, per esempio, giusto per farvi venire la pelle d’oca), il disco si spiega con volute eleganti e cariche di emozioni, coniugando in maniera eccezionale le note grevi e dolenti del doom metal con momenti più contemplativi di scuola Empyrium con un lavoro di chitarra capace di cesellare assoli grandiosi, di cui “Banner Of The Saint” ne è l’esempio perfetto (con un passaggio iniziale di pianoforte in grado di arrivare ad evocare “Enchantment” dei Paradise Lost). La base di tutto è comunque un solido doom solenne ed insieme litanico, in cui i passi tracciati da Skepticism o Pantheist vengono sì ripercorsi nelle note accorate dell’iniziale “Burden Foretold”, ma con un’impronta nuova e personale in grado di rimanere impressa: i passaggi più granitici vengono stemperati da una certa patina di quieta riflessività (a costo di ripeterci, oseremmo dire quasi monastica) e maestosa contemplazione, creando canzoni atmosferiche e suggestive senza però rinunciare alla pesantezza della nostra musica preferita. A fianco dell’artista inglese, troviamo per questo album una serie di musicisti scelti ad hoc non per fungere da mero supporto, quanto piuttosto per arricchire il suono – sorretto da una produzione capace di sottolinearne la raccolta maestosità – di sfumature particolari: ecco quindi il violoncello delicato ed insieme potente di Jo Quail (che in passato ha collaborato anche con Trent Reznor e My Dying Bride) alternarsi al piano dolente e sacrale di Deeks come nella titletrack, mentre Dan Capp dei Wolcensmen costruisce insieme a quest’ultimo le linee di chitarra e i cori. Che siano questi o passaggi in spoken word più vicini alla sensibilità dei Saturnus, comunque le voci diventano strumento ulteriore e non solo veicolo di un messaggio, costituendo uno dei punti di forza di un piccolo gioiellino medievista ed arcaizzante.
Il risultato è un lavoro vibrante e con un impatto suggestivo pazzesco: che siate per strada o a casa, la sensazione sarà comunque quella di ritrovarvi a margine di una navata durante i vespri, all’interno di un monastero celato dalle nebbie del tempo, respirando polvere di leggende, conquiste scandinave, reliquie di santi.