8.5
- Band: ARMORED SAINT
- Durata: 00:53:29
- Disponibile dal: 23/10/2020
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Quando si ha a che fare con gli Armored Saint, anche l’ascoltatore smaliziato sa che può approcciarsi a un loro nuovo album con spirito fanciullo, quello del metalhead adolescente che segna i giorni sul calendario prima dell’uscita. È lecito avvinarsi all’ottavo full-length degli americani con quell’animo già grato di chi sa che non riceverà delusioni e potrà rinvigorire il proprio cuore di fan heavy metal, a suon di anthem da cantare a squarciagola e a forza di headbanging tra le mura domestiche. Se c’è una band nell’ecosistema del metal classico che non ha mai appioppato fregature, non si è inventata strani esperimenti, non ha cambiato rotta in nome di qualche trend o pulsione da ‘maturità artistica’, questi sono gli uomini capitanati da John Bush. Va da sé allora che, a cinque anni dall’eccellente “Win Hands Down”, possiamo riaccoglierli a braccia aperte e con un bel sorrisone stampato in faccia. “Punching The Sky” arriva tra noi mantenendo inalterato un ideale di suono classico e moderno assieme, che a differenza del grosso dei gruppi nati negli anni ’80 non vuole ricordare per forza quell’epoca. È solo heavy metal quello degli Armored Saint, che non fa propriamente della purezza il suo vanto principale; piuttosto, adotta una raffinata e camaleontica contaminazione, quella che anche all’interno di quest’album spadroneggia tra un colpo di classe e l’altro.
D’altronde, i due singoli rilasciati nei mesi antecedenti l’uscita, “Standing On The Shoulders Of The Giants” e “End Of The Attention Span”, non lasciavano alcuna incertezza sullo stato di forma del Santo. La prima, introdotta da un’insolita cornamusa, si svelava essere un esaltante midtempo a ritmo sincopato, condotto dalle inconfondibili trame di basso di Vera e da linee a dir poco incalzanti del singer. Un brano arioso, nel quale ritmiche corpose si intervallano ad arpeggi e calmieramenti dell’impeto, in un ondeggiamento fra durezza e melodia avvincente dalla prima all’ultima nota. La seconda è una clamorosa fucilata di metal anthemico, dinamitardo, con la coppia d’asce a creare scompiglio, fra botta-e-risposta vocali smaccatamente ottantiani, bridge vertiginosi e un chorus già classico. E non è che l’antipasto di un album al solito impressionante per qualità compositive, intensità, efficacia dei riff e intrecci solisti merce rara nell’heavy metal del 2020. In pochi sanno infondere così tanta potenza ed enfasi in canzoni altrimenti piuttosto quiete, come accade nell’hard rock dinoccolato di “My Jurisdiction”, un mordace campionario di rilassatezze, attimi sornioni e scatti metallici micidiali.
Quando dalla batteria si elevano taluni colpi mixanti spunti latini ed heavy metal, è il segnale che si volta altissimo ed è quanto accade in “Do Wrong To None”, con Bush che si flette verso quel cantato aggressivo e caliente messo in mostra negli anni in compagnia degli Anthrax: stacchi heavy dal piglio modernista, quasi thrash, si intervallano a un chorus cantabile e assoli vorticosi, per un brano tra i migliori della raccolta. Lo scorrere della tracklist è un turbinare di emozioni diviso tra scorrerie battagliere e il dispiegarsi dell’enorme cultura rock del quintetto, che mescola spunti non-metal con accuratezza e attenzione, inglobando ogni idea esterna al filone principale per farla denotare di clangori metallici. A volte più assordanti, in altri casi morbidi e levigati. È il fronte, quest’ultimo, di “Lone Wolf” e “Fly In The Ointment”, accomunate da crescendo avvolgenti e un dispiegarsi delle chitarre in fasi soliste sempre diverse e suggestionanti, per due canzoni che magari non impressionano ai primi passaggi, ma crescono vertiginosamente quando si familiarizza con esse.
Sull’ala ‘soft’ del disco, merita menzione a parte la divertita ed easy “Bark No Bite”, in partenza quasi strombettante, imperniata su giri chitarristici spezzettati e ritmi irregolari, rivestiti di quella scorza dura e assieme confortevole che li rende sì metallici, però sedotti da una beata, relativa, mollezza. C’è di che sospirare, fra le brume della trasognata “Unfair”, oppure urlare nell’implacabile chiusura di “Never You Fret”, diabolica nel riff portante; anche se il pezzo da KO diretto è un altro: “Missile To Gun” potrebbe essere il manifesto classic metal della ‘divertentissima’ annata 2020, una di quelle rasoiate a mille all’ora che può accomunare chiunque, da chi si avvicina all’heavy metal solo adesso, a quelli che hanno quarant’anni di ascolti sul groppone. Una canzone veloce, irrefrenabile, martellante, dal chorus strappaorecchie. Gli Armored Saint sono tornati e, come al solito, ci accorgiamo che ne avevamo un tremendo bisogno.