8.0
- Band: ARMORED SAINT
- Durata: 00:51:00
- Disponibile dal: 02/06/2015
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Gli Armored Saint sono sempre stati un caso a parte sulla scena hard’n’heavy: fin dall’esordio “March Of The Saint” hanno denotato una forte indipendenza e unicità rispetto all’ambiente circostante, arrivando a creare melting pot coraggiosi nella propria musica, senza violare i dettami del “vero” heavy metal. A partire da “Delirious Nomad” la varietà stilistica è sempre stata un cardine della proposta dei cinque losangelini, un elemento che ha portato a una serie di album uno più avvincente dell’altro, e come rovescio della medaglia l’impossibilità di varcare certe soglie di popolarità: tolta una piccola fetta di fedeli appassionati, il grosso del pubblico metal non ha mai espresso un’adesione convinta agli stimolanti input forniti in carriera dal quintetto. Tra gli act storici approdati all’agognata reunion, Bush e soci si sono dimostrati tra quelli più onesti e veri in circolazione: poche chiacchiere, nessuna mossa da avanspettacolo o di gossip per richiamare l’attenzione, solo tanta sostanza. Così, a cinque anni dallo splendido “La Raza” (per chi scrive, all’altezza dei capolavori della prima fase di carriera, fino a “Symbol Of Salvation”), è di nuovo tempo di accogliere il Santo nelle nostre orecchie e nei nostri cuori. E anche in questa occasione non ci ha tradito: “Win Hands Down” è infatti l’ennesimo atto di amore per l’heavy metal a trecentosessanta gradi, in linea con l’eclettismo e la matrice, un po’ nostalgica e un po’ moderna, del disco precedente. Stessi suoni caldi e pastosi di “La Raza”, quindi, a creare un ambiente accogliente e familiare per l’ascoltatore, immediatamente ben disposto verso le canzoni proposte, a cavallo tra hard rock, heavy metal e una poliedricità che in ambito metal classico solo i Savatage, con modi diversi, hanno avuto. La title-track non lascia dubbi sull’ispirazione della band: le chitarre di Phil Sandoval e Jeff Duncan lavorano di mazza e di pennello, facendo grandinare con pari inventiva ritmiche spessissime e melodie rivitalizzanti. Il basso di Vera si erge ancora più del consueto a fattore di rottura e imprevedibilità, mettendo insieme il modernismo nervoso degli Anthrax di “Sound Of White Noise”, danze progressive, rimandi fusion e blues. Cambia registro quando meno ce lo si aspetterebbe, in questo coadiuvato da una prova maiuscola dell’altro Sandoval, Gonzo, alla batteria. Chiude il cerchio una delle voci metal più caratterizzanti, versatili ed eccitanti della scena, quel fuoco di passioni metalliche rispondente al nome di John Bush, uno che farebbe diventare un mega-anthem rock anche la più sciacquetta delle canzoni pop da classifica. Non solo potenza per questo immarcescibile eroe, ma una vastità di interpretazioni non commensurabile e rispondenti ogni volta all’esigenza del pezzo. La vena vintage si è addirittura accentuata rispetto al predecessore: sentite gli sprazzi prog rock della title-track, o della ballad “Dive”, e poi ci saprete dire. Guadagnano nuovo spazio le percussioni di gusto latino, che segnano indelebilmente “Mess” e “An Exercise In Debauchery”; le scoppiettanti sincopi ritmiche ci fanno pensare ai Living Colour, riletti secondo una percezione delle sette note cara all’heavy metal tradizionale. In “An Exercise…” andatevi a sentire il botta-e-risposta a colpi di mini-assoli fra basso e chitarra, a circa metà brano: roba da far passare la voglia di suonare al prossimo per manifesta inferiorità. “Muscle Memory” alza il livello dello scontro, fra synth ottantiani, polifonie vocali, un Bush camaleontico in grado di passare da un inizio cantautorale a vocalizzi sanguigni da rocker, fino alle note lunghe tipiche dello screamer. Avanti con l’hard rock moderno di “That Was Then, Way Back When”, dove il groove la fa da padrone, e il piglio rock’n’roll vecchio stampo di “With A Head Full Of Steam”, pezzo nobilitato da un intenso duetto fra Bush e la verace voce femminile di Pearl Aday; anche alle prese con strutture più snelle e dirette, il combo americano non dà tregua e non scende dagli alti livelli cui ha abituato dall’inizio dell’album. “In An Istant”, ispirata dal tragico attacco terroristico avvenuto alla Maratona di Boston del 2013, svela l’intimismo del gruppo, ricordando il lirismo di una “Another Day” (da “Symbol Of Salvation”) o di “Isolation” (da “Raising Fear”) tenendo comunque ben alto il coefficiente di energia e pesantezza. Se “Dive”, pur lodevole, abbassa un po’ la tensione – ottimi in ogni caso l’avvio di piano e la sentita interpretazione vocale –“Up Yours” mette un altro sigillo non di poco conto su “Win Hands Down”: si chiude infatti sull’onda di un hard pulsante, sfaccettato, dove ritrovare Thin Lizzy, progressive settantiano, un leggero tocco musical, duelli solisti incandescenti, vertiginosi contrappunti “colti” e spezzoni grassi e ruspanti. Difficilmente rimarrete delusi se avete sempre seguito gli Armored Saint con affetto, mentre se li doveste averli trascurati fino ad oggi, fatevi un esame di coscienza e, fosse solo per mera cultura personale, date loro un ascolto. Le reazioni potrebbero essere inconsulte….