8.0
- Band: ARTHUR BROWN’S KINGDOM COME
- Durata: 04:54:45
- Disponibile dal: 25/06/2021
- Etichetta:
- Cherry Red Records
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Dopo la fine dell’avventura con i Crazy World e l’abbandono dei sodali Vincent Crane e Carl Palmer, che per inciso andarono a fondare gli Atomic Rooster, l’eclettico Arthur Brown non si perse d’animo, dando vita a questo nuovo progetto. Anche la vita dei Kingdom Come non fu molto lunga, e nonostante i numerosi riconoscimenti della critica e concerti decisamente acclamati (mitico fu quello a Glastonbury nel 1971), nemmeno con questa band Brown resterà negli annali della musica del pubblico più distratto, ahimè. È quindi encomiabile l’uscita di questo curatissimo cofanetto con cui l’etichetta londinese Cherry Red omaggia un suo compaesano (del Dorset, per la precisione) che meritava ben altro successo, ripresentando l’intera discografia della sua seconda band, senza trascurare nemmeno un brano mai registrato, e tutto con uno straordinario lavoro di remastering.
Partiamo in ordine sparso con il tentativo di raccontarvi questo mastodonte costituito da ben 5 CD. “Jam – The First Sessions 1970” rappresenta un documento eccezionale degli esordi della band, che nel giro di pochi mesi cambierà tutti i suoi componenti e non riutilizzerà nessuno dei brani qui presenti (per quanto alcuni estratti si possano riconoscere tra i solchi del primo album). Si segnala per brani già ben strutturati e che in qualche modo anticipano comunque le sonorità dell’intera carriera, ma è indubbio che la svolta, per i Kingdom Come, avverrà con l’ingresso in formazione di Andy Dalby; un talentuoso e visionario chitarrista che resterà per l’intera esistenza della band, per essere poi coinvolto in esperienze varie nel ‘giro’ di Michael Moorcock – e quindi della sperimentazione più marcatamente space rock.
A segnare in maniera distintiva questo folle ensemble nel pieno della sua attività ci sono diversi elementi. In primis l’uso dell’allora ultra sperimentale sintetizzatore VCS3 (oltre al theremin e al mellotron, per inciso), che porta ad ascoltare effetti sonori avanti di un decennio; poi, il lavoro mostruoso del basso, prima con Desmond Fisher e poi – e ancor più – con Phil Shutt, compianto turnista dell’epoca per numerosi solisti. E infine l’impressionante versatilità vocale di Brown stesso (cinque ottave e rotti, per intenderci), centrale nel ricamare l’inedito sound del gruppo.
Andando ad analizzare i dischi ‘ufficiali’, “Galactic Zoo Dossier” ha sonorità ancora in qualche modo legate all’esperienza precedente, in bilico tra prog e un certo gusto ludico e schizoide insieme. Molti passaggi ricordano la cupezza sperimentale dei Van Der Graaf Generator, complice sicuramente la timbrica di Arthur Brown e le tastiere tetre, ma non mancano momenti più intensi e meditate, come l’emozionante “Sunrise”. In chiusura di disco inizia la sequenza di bonus, con alternate version e un inedito, in questo caso il folle be-bop di “Space Plucks Dem Bones”.
È poi il momento di “Kingdom Come”, ancora una volta un concept album – sarà una scelta precisa anche per il terzo e ultimo disco, decisamente più sperimentale. Si segnala l’ingresso in formazione del polistrumentista Victor Peraino, che proverà dopo diversi lustri a rianimare la band, senza successo, ma che in questo frangente cronologico porta non pochi elementi lisergici (“City Melody”), ma anche beatlesiani. Per non dire anzi prossimi al cabaret à la Monty Python (del resto coevi): è il caso di “The Teacher” e della seguente “The Experiment” (guarda un po’!), veri e propri trip musicati. Anche qui non mancano di far capolino brani più intimisti (“The Whirlpool”), ma soprattutto è il disco che segna il passaggio alla drum machine: novità che resterà un marchio di fabbrica anche sul disco successivo, e altro elemento decisamente in anticipo sui tempi.
Arriviamo così a “Journey” capolavoro della band e della psichedelia più liquida e sperimentale, uno dei grandi dischi ‘dimenticati’ degli anni Settanta per il suo valore musicale e in termini di ricerca. Sono tantissimi e sfaccettati gli spunti qui presenti, con elementi quasi occult rock grazie alle tessiture dei synth, passaggi epici da colonna sonora (“Superficial Roadblocks”, una suite in tre parti), caldi momenti blues (“Come Alive”) e pezzi coperti dalla polvere del tempo ma ancora attualissimi o da riscoprire e ascoltare in loop, come “Time Captives” o “Spirit Of Joy”.
Già detto delle numerose bonus track poste in coda ai full-length già distribuiti all’epoca, di cui molte edite per la prima volta su cd, la vera chicca per completisti è il quinto cd, contenente le registrazioni di tutte le loro BBC Session. Su dodici brani, finora avevano visto la luce solo i tre registrati per il programma di John Peel, a testimonianza di un lavoro di ricerca in archivio notevole. Completano il pacchetto un bel poster dal gusto retrò del periodo di “Galactic Zoo Dossier” e un ricco libretto foto-biografico, con inclusa un’intervista inedita ad Arthur stesso.
Con “Eternal Messenger”, insomma, oltre ad aver scelto un titolo eccellente per descrivere questo visionario musicista, Cherry Red Records offre una panoramica eccezionale su una band troppo spesso dimenticata.