8.0
- Band: ASPHYX
- Durata: 00:47:42
- Disponibile dal: 09/30/2016
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Non è davvero il caso di aspettarsi stravolgimenti, cambi di direzione o ripartenze da zero dagli Asphyx, anche in seguito all’abbandono di un musicista importantissimo come Bob Bagchus, batterista e membro fondatore di questa istituzione del death metal europeo. Il frontman Martin van Drunen e il chitarrista Paul Baayens – quest’ultimo il principale compositore dei lavori usciti in seguito alla reunion del 2007 – hanno infatti saputo trovare un valido rimpiazzo nel tedesco Stefan Hüskens (Desaster) e, senza forzare i tempi, sono riusciti a confezionare un nuovo album più che degno di essere accostato ai capitoli cardine della loro discografia. Sono trascorsi più di quattro anni dalla pubblicazione del fortunato “Deathhammer”: in questo lungo lasso di tempo la band ha evidentemente raccolto le proprie forze, riordinato le idee e aspettato il momento di massima ispirazione per comporre, cercando di tralasciare il più possibile brani-filler ripetitivi. Con “Incoming Death” il quartetto di origine olandese ha creato un piccolo grande mix dei punti forti della sua storica proposta, riuscendo a divertire e chiaramente divertendosi a sua volta. I riff, come sempre protagonisti indiscussi di tutta la produzione, si susseguono dalla forsennata opener “Candiru” fino all’epica chiusura di “Death: the Only Immortal”, quasi ad ubriacare l’ascoltatore. Come al solito, non vi è molto da decifrare ascoltando un album targato Asphyx: il fulcro del sound è rappresentato solo ed esclusivamente dalla stentorea chitarra di Baayens, lo strumento con cui i Nostri creano di continuo motivi possenti, melodie incalzanti e ritmi a cui è difficile resistere. A tal proposito, il lavoro di batteria è come di consueto curato in un modo tanto semplice quanto incisivo: Hüskens gioca un ruolo fondamentale per l’arrangiamento e per il mood che le canzoni trasudano, grazie a cambi di ritmo chiarissimi, puntuali e quasi sempre azzeccati. Come al solito, ci si trova spesso a metà strada fra death e doom, con qualche sfogo più vicino al thrash a fare capolino in un paio di episodi (vedi la title track, in verità sin troppo scarna). L’avvio del disco scorre via in un lampo, tra la suddetta piacevolissima opener e la più composta “Division Brandeburg”, che, a dirla tutta, curiosamente sembra strizzare un po’ l’occhio ai Marduk più marziali nell’incipit. Più in là nella tracklist, con “The Grand Denial” e la succitata “Death…”, vengono fuori i cosiddetti pezzi forti, i quali, tra cadenze maggiormente solenni e un continuo inseguirsi di riff, riportano la mente ai momenti migliori di “Death… the Brutal Way”. “It Came From The Skies” è un altro pilone portante di questo tempio della distorsione, destinato forse ad essere ricordato come un altro “Scorbutics”, così come il riff di “Wildland Fire”, che non sarà mai celebre come quello di una “Last One on Earth”, ma ci andrà vicino. In definitiva, nessuno si aspettava un disco innovativo; anzi, tutti speravamo che van Drunen e compagni continuassero a fare ciò che da sempre riesce loro meglio. Senza strafare, prendendosi tutto il tempo necessario e sfruttando al massimo un periodo ispirato, i quattro ci hanno accontentato alla grande, riuscendo pure a superare l’apprezzato “Deathhammer”. Difficile pretendere di più.