8.5
- Band: ATLANTEAN KODEX
- Durata: 01:02:34
- Disponibile dal: 13/09/2019
- Etichetta:
- Ván Records
- Distributore: Audioglobe
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Quando ci si sofferma su cosa si intenda per epicità tradotta in note, nel discorso è inevitabile inserire, tra i nomi imprescindibili, quello degli Atlantean Kodex. La band bavarese ha espresso eloquenti rappresentazioni di cosa voglia dire suonare epic metal, prima tramite l’ormai storico EP “The Pnakotic Demos” (2007), piccolo oggetto di culto, quindi con due album che non è blasfemo inserire fra le uscite simbolo del genere, ovvero l’esordio “The Golden Bough” (2010) e il magico successore “The White Goddess” (2013). Metal di stoffa rara e pregiata, trascinante, enfatico, scritto col cuore ma meditato e studiato attentamente, veicolo per trattare tematiche complesse, mettendo in collegamento riferimenti culturali ad epoche lontane e richiami a problematiche moderne. Canzoni dove tessere trame avvolgenti, portatrici di un’aura sacrale unica, fitte di dettagli, associabili per tensione e potere immaginifico ai migliori Manowar, ai Bathory di “Hammerheart” e “Twilight Of The Gods”, ai Doomsword, ai Solstice, cui si aggiungono per la marcata vena progressiva Fates Warning (quelli di “Awaken The Guardian”) e While Heaven Wept. Nomi utili a farsi un’idea di massima, per nulla esaustivi su cosa rappresenti questo quintetto nel panorama metal contemporaneo.
“The Course Of Empire” arriva lungamente atteso, nel frattempo il gruppo ha tenuto solo poche date all’anno, in eventi lontani dalle grandi masse, vicine al cuore pulsante dell’underground. È evidente che non vi sia discontinuità con l’eccellente passata discografia, come è lampante che il gruppo, mutato nella composizione in una posizione cruciale quale la chitarra solista – fuori lo storico membro Michael Koch, dentro Coralie Baier – abbia voluto osare e proporre un sound ancora più ricco e stratificato. “The Course Of Empire” è album molto cantato, con lo straordinario squillare stentoreo della voce di Becker a fungere da guida in misura ancora più netta che negli album precedenti. Se la produzione piuttosto chiusa e rabbuiata potrebbe essere l’unico motivo di (relativa) perplessità, scrittura e interpretazione sono ai consueti, altissimi, livelli, anche se l’apprezzamento di tutto quanto contenuto nel disco richiede un certo impegno. “People Of The Moon (Dawn Of Creation)”, primo vero brano in tracklist, svela i punti cardine dell’opera con la capacità prima di sintesi e quindi di opulento sviluppo che gli Atlantean Kodex hanno nel DNA: un’apertura in midtempo molto tradizionale è preambolo a un percorso di densa e colossale ascesi, dove il cantato di Becker pare portarci in alto, sempre più in alto, rilanciare l’azione in una progressione sfinente di cui non si vede la fine. I cori, quando presenti, caricano di una sacralità immane l’atmosfera, che non presenta le aperture subito avvinghianti di una “Heresiarch” o “White Goddess Unveiled” e non ha nei chorus attimi di pura adrenalina. Il coinvolgimento va cercato nell’insieme, in intrecci ammantati di malinconia, lirismo roboante, interrotti nel loro spavaldo e mistico protrarsi dai momenti di cantato a cappella di Becker, quando la sua voce assume toni confessionali, circondata da chitarre acustiche e sommesse tastiere.
La rielaborazione di melodie di sapore medievale fa percepire gli Atlantean Kodex dei cantori giunti a noi per raccontarci di un passato perduto, riannodare i fili della memoria, offrirci non solo inesauribile carica metallica, ma significati profondi, nascosti fra allegorie e metafore di cui i non banali testi sono pieni. Il tambureggiare della batteria e l’insistenza su riff di ascendenza doom portano ad assaporare l’acre gusto dei campi di battaglia, evocano scenari drammatici e conflittuali, mentre le soliste ammantano di una triste riflessività ritmiche fragorose e incalzanti. Di fronte a cotanta abbondanza viene difficile citare un pezzo sugli altri, ma se proprio ne dovessimo indicare uno, andremmo sul mix di tragedia, solitudine e tormento interiore di “He Who Walks Behind The Years (The Place Of Sounding Drums)”; svelata in modalità ‘aedo di corte’ da Becker, è presto preda di un uragano strumentale che compiace i bassi istinti e nel contempo scatena un epos colto e ricercato, con un’ariosità non dissimile dall’album precedente. In un mondo che mette di frequente la banalità e la superficialità al primo posto, “The Course Of Empire” fa assaporare il gusto prelibato della ricercatezza, di un’esposizione meditata e consapevole, dell’esibizione smagliante e non compiaciuta del proprio talento. Già un classico.