7.5
- Band: ATROPHY
- Durata: 00:44:16
- Disponibile dal: 15/03/2024
- Etichetta:
- Massacre Records
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A volte ritornano. Quasi sempre, a dire il vero. Presto o tardi, la tentazione di rimettersi in pista ce l’hanno un po’ tutti: chi ha vissuto di qualche effimera attenzione negli anni ’80-primi anni ’90, anche nomi non di primo piano, il pensierino a rifarsi vivo lo fa, sapendo che qualcuno là fuori che lo aspetta lo trova.
E con i sentori di nostalgia sempre lì pronti a far capolino, per chi suona e ascolta, non c’è mai da stupirsi se qualcuno della ‘vecchia guardia’ riemerge dalle tenebre.
Gli Atrophy dell’Arizona sono relativamente noti per due buoni album thrash giunti nel periodo di massima inflazione del settore, sul finire dei mitizzati eighties, ponendosi sull’onda lunga del thrash della Bay Area, per quanto nel loro caso la zona geografica fosse un po’ distante da quella californiana. Poco importava, oggi come allora, perché le stimmate sonore albergano inevitabilmente in un thrash che più muscolare, orientato al mosh e privo di orpelli non potrebbe essere.
Gli album della prima fase di carriera, “Socialized Hate” e “Violent Nature” sono due fiammanti bordate di thrash a stelle e strisce con l’unico difetto, comune praticamente a tutte le formazioni venute alla luce in quegli anni, di arrivare nel periodo sbagliato: le vacche grasse stavano per ammalarsi e smagrire fino a defungere, a meno di non essere particolarmente coriacei, lavorare in tono minore per qualche anno e riemergere con maggiore fulgore quando i tempi fossero di nuovo diventati maturi.
Gli Atrophy invece si spensero in fretta, per ripresentarsi a intermittenza negli anni ’10 e in forma più salda e sicura in questa decade. Solo che nel 2020 vi è stata una scissione: da una parte, quattro quinti della formazione originaria, ridenominata “Scars Of Atrophy”: dall’altra, il transfuga, il cantante Brian Zimmerman. Costui, a quanto pare titolare del nome, si è attorniato di musicisti un filo più giovani ma non esattamente di primo pelo per portare avanti la band. Qua preferiamo evitare ogni discorso sulla legittimità dell’attuale formazione, preferiamo concentrarci sulla musica.
Quella, lo diciamo con un pizzico di positiva sorpresa, si fa valere egregiamente. Non saranno di certo gli Atrophy odierni a sviluppare discorsi avveniristici, sperimentare, dare nuova linfa al settore, mentre se si cerca una rielaborazione ficcante, mordace e decorosamente ispirata dei dettami cardine del thrash metal, “Asylum” fa veramente al caso vostro. Questo è un album per thrasher nudi e puri. Agli altri non interessa, non hanno proprio motivo di avvicinarsene. Forgiato su tempi medi squadrati, intensi, spaccaossa, con un riffing classicissimo ma incattivito quanto basta per reggere il passo alla fiammante modernità, “Asylum” mette assieme brani crudi e cafoni, thrash anthem orgogliosamente sudati, suonati per alternare furbamente dinamiche da mosh immediato e scatti in avanti velenosi e crudeli.
La materia è sviscerata non lesinando affatto in violenza e tracotanza, mettendo giusto qua e là qualche piccolo abbellimento che possa dare un minimo di distinzione ai singoli episodi. Fa una bella figura a tal proposito il lavoro chitarristico, rigoroso nello stare dentro certi ambiti ma capace di qualche svolazzo meno prevedibile nelle trame soliste: va ben oltre il compitino la batteria, architrave degli Atrophy attuali e piacciono anche le veraci inventive di Zimmerman, tutto da testare eventualmente dal vivo, mentre in studio pare ancora sapersela cavare bene, alle soglie dei sessant’anni.
Non ci sono particolari picchi da segnalare, di converso non si va mai sotto la sufficienza, anzi: l’adrenalina scorre a fiotti e ci si diverte beatamente, senza stare a pretendere chissà cosa. Però, proprio per la sua genuina, sferzante energia e l’esattezza con cui ogni elemento va al posto giusto, questo è un disco che ha qualche marcia in più rispetto alla media delle uscite thrash odierne. Citiamo, per qualche imbeccata melodica più notevole delle altre, l’accoppiata “American Dream”-“Close My Eyes”, anche se la scelta del pezzo forte è ardua. Pure il confronto con il materiale del passato non fa sfigurare quanto prodotto oggi, un risultato nient’affatto scontato.
Ripetiamo: se siete thrasher fatti e finiti che conoscono a memoria tutto ciò è uscito dagli Stati Uniti nel campo del thrash ottantiano, “Asylum” difficilmente vi deluderà: per tutti gli altri, si può tranquillamente girare al largo.