7.0
- Band: AUTHOR & PUNISHER
- Durata: 00:41:18
- Disponibile dal: 27/04/2012
- Etichetta:
- Seventh Rule Recordings
Spotify:
Apple Music:
Tristan Shone, un ragazzo come tanti, dall’apparenza tanto innocua quanto trascurabile, quanto anonima, quanto banale. Uno come tanti, appunto. Ingegnere meccanico presso la Universitiy of California di San Diego, Tristan, è proprio il tipico “nice guy”, il ragazzo della middle class americana istruito, in gamba, con la vita a posto e, se vogliamo, anche completamente banale. Di giorno Tristan è il tecnico che si occupa di tarare e aggiustare i costosissimi microscopi elettronici a scansione dell’università. Sta tutto il giorno a smanettare con macchinari e la strumentazione tra la più delicata ed avanzata al mondo, da bravissimo nerd quale è. Questo è Tristan Shone di giorno. Ma c’è anche un Tristan “di notte”, ovvero l’appassionato di doom metal e industrial che, quando stacca dal lavoro, torna a casa, va in cantina e si mette a creare. E quando diciamo “creare”, non intendiamo solo musica, ma tutto, ovvero anche la strumentazione. Tristan infatti ha applicato le sue innaturali doti di ingegnere meccanico al doom metal e all’industrial, per creare la sua personale “orchestra”, ovvero un arsenale di strumenti robotici da lui stesso ideati, progettati e realizzati tramite software CAD e macchinari per il taglio laser. Questa “armatura” di macchinari da un altro mondo realizzata da Tristan, diventa un tutt’uno con il suo corpo di materia organica, creando una sorta di organismo cibernetico fatto di carne e macchine, progettatto con il solo e unico scopo di creare suoni raccappriccianti. Vederlo all’opera è una delizia e in questo caso vi consigliamo di dare una occhiata al suo sito web e ai tanti video del musicista reperibili su YouTube, ma la cosa che scoinvolge maggiormente è il risultato finale, ovvero “assistere” ai suoni che Shone riesce a far uscire dalle sue immonde creature meccaniche. L’ultimo installment di questo processo di creazione fantascientifico, cibernetico e apocalittico è “Ursus Americanus”, il secondo album di Shone, uscito proprio in questi giorni per la Seventh Rule Recordings. Il lavoro in questione mostra subito muscoli che non sono umani. Suoni che non sono quelli di un ampli o di una chitarra, e neanche di un computer, ma scorticanti e inumani soundscape di una pesantezza inaudita e anche difficile da spiegare. Beat prodotti da trivelle, bassi prodotti da presse e pistoni, voci filtrate attraverso compressori e cortocircuiti. In poche parole, un olocausto post-apocalittico inaudito, che trova come sommi esempi la atroce opener “Terrorbird” e la scorticante “Set Flames”. Qualche rimando al doom-industrial di provenienza convenzionale c’è, come per esempio a certi lavori di Justin Broadrick (Greymachine e Final in primis), dei Red Harvest, dei Blut Aus Nord, dei Necro Deathmort e dei Black Boned Angel, ma è evidente che il sound di “Ursus Americanus” non viene da quello della musica convenzionale appunto, e neanche dalla sfera umana, ma da quello dell’industria siderurgica pesante; e per una volta possiamo dire che non è una metafora, ma è pura realtà: queste sono macchine pesanti all’opera. Come non si sa, ma è proprio così, e dietro al loro mostruoso operare c’è un piccolo essere umano con un cervello e una visione musicale completamente fuori dalla norma. Ora, se il 90% del fascino che questo album genera, è provocato per lo più dal suo background stranissimo e avvincente e dalla sua particolarissimoa storia, che potrebbe essere a tutti gli effetti materia da film, la musica, le “composizioni” e gli arrangiamenti in sè sono meno rivoluzionari. Shone ci mostra che si può fare musica con qualunque cosa oggigiorno, ma anche che, seppur con una armata di robot a seguito, se non si è dei veri compositori, neanche le macchine fanno miracoli e che, anzi, forse possono anche porre ostacoli e limitare non poco il processo creativo. In questo senso, “Urusus Americanus” mostra qualche pecca sul versante delle dinamicità musicale, con “composizioni” a tratti ripetitive e a tratti troppo minimalistiche e statiche, ingessate e incastrate in se stesse, che ci mostrano uno Shone ancora più ingegnere meccanico che musicista. Nulla toglie al fatto che ci troviamo comunque di fronte all’inizio di una carriera interessantissima, che chissà a cosa può portare, e ad un lavoro straordinario per tutta una serie di altri motivi. Anzi, ci troviamo di fronte ad un prodotto non raro, ma del tutto unico. Una prima assoluta. Se è in atto una rivoluzione dei mezzi, o “tecnologica”, nel mondo della musica, questa in questo preciso istante sta senz’altro passando dall’immenso talento di Tristan Shone.