8.0
- Band: AVATAR
- Durata: 00:41:21
- Disponibile dal: 17/02/2023
- Etichetta:
- Black Waltz Records
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Una formazione tra le più pazze e sopra le righe del panorama si appresta a fornire il già ottimo “Hunter Gatherer” di un seguito, ancora più difficile da catalogare da un punto di vista puramente musicale, pregno tuttavia di quella squisita commistione di follia ed eleganza che tanto ci ha fatto apprezzare gli svedesi Avatar nel corso degli anni.
Questi ultimi colgono l’occasione per introdurre una autentica novità: questo sarà il primo album prodotto e distribuito da Black Waltz Records, di proprietà della stessa band e dedita unicamente alle sue uscite.
Una copertina minimale ed inquietante, in cui a spiccare è lo sguardo assassino del circense frontman Johannes Eckerstrom, funge letteralmente da antipasto per quello che ci aspettiamo essere un lavoro carico di significato artistico e ricco di sferzate stilistiche imprevedibili. La iniziale title-track si apre con una soluzione di derivazione quasi country, che prontamente esplode in un riffing ferocissimo su cui presto va a sovrapporsi una voce ruggente e sanguinaria, ma nel contempo dannatamente versatile, in quanto in meno di un minuto possiamo saggiare almeno tre o quattro stili vocali differenti, tutti perfettamente inseriti nel contesto. Definire il sound degli Avatar con un’etichetta è pressoché impossibile, poichè dentro si possono trovare sprazzi di death melodico, power, metalcore, groove e persino nu metal; tutti filoni che non predominano mai del tutto, ma emergono in base al brano e/o all’emozione che questo combo di raffinati pazzoidi ha intenzione di trasmettere allo spaesato ascoltatore, con in più una punta di pop e hard rock in veste di collante.
A questo punto, ci limitiamo a definire la musica contenuta in questo “Dance Devil Dance” come qualcosa di personale e unico: un pregio non indifferente di questi tempi, anche perché pochi sono in grado di mischiare e rimaneggiare gli stilemi del metal senza sembrare un minestrone indigesto, abbinando il tutto a una gimmick accattivante, giovane e di classe nel suo eccesso. Proseguendo con la tracklist, le mille facce degli Avatar ci sorridono e ci ringhiano in scioltezza: “Chimp Mosh Pit” stimolerebbe la voglia di pogare in chiunque, mentre “Valley Of Disease” alterna la tetra e demolitiva cattiveria delle strofe con un ritornello melodico ed ossessivo, con in più degli inserti di musica elettronica a scandire le pause. Similmente, i gabbiani presenti nei primi secondi di “On The Beach” la buttano totalmente di fuori nel momento in cui i chitarroni massicci irrompono nell’impianto, proseguendo anche nella successiva “Do You Feel In Control?”, il cui main riff sfoggia una matrice quasi di stampo stoner.
“Gotta Wanna Riot” è unica nel suo genere, perchè riesce a essere ballabile e persino pop senza però sacrificare una sorta di alone furente e riottoso, con in più quel cantato apparentemente allegro, davvero malato nelle sue soluzioni. Ad essa segue il singolo “The Dirt I’m Buried In”, a suo modo molto più catchy e radiofonico, un ulteriore indice della capacità degli Avatar di riuscire a variare e a rendere, di fatto, commerciale un sound che difficilmente riuscirebbe ad esserlo altrimenti. Non mancano anche gli sfoggi di tecnica e gli assoli chitarristici, mai troppo esuberanti e sempre ben calcolati, così come la proporzione tra melodie, effetti sonori e sprazzi di violenza.
“Clouds Dipped In Chrome” inizia con un blastbeat che traina poi il pezzo in una direzione fatta di effetti chitarristici contemporanei e nel contempo classici, mentre “Hazmat Suit” porta tutto su un piano inaspettato, con un retrogusto a metà tra il power metal in stile Helloween e l’hard rock moderno sulla falsariga degli Halestorm; formazione non scelta a caso come esempio, in quanto sulla conclusiva e dissonante “Violence No Matter What” compare in veste di ospite proprio la bella Lzzy Hale, ma non prima della più breve e deprimente “Train”, che con la sua natura inizialmente acustica e ondeggiante starebbe davvero bene come colonna sonora di un film di Clint Eastwood, a prescindere dal bridge distorto e sanguinario che sopraggiunge verso metà brano.
Per quanto ci riguarda, siamo in presenza dell’ennesimo centro di una band che è riuscita a crearsi un’identità dal caos, strizzando nel contempo un occhio al mercato e alle sue tendenze, senza però diventare in alcun modo stucchevole o stagnante. Anzi, ogni pezzo degli Avatar gode di una propria natura, e loro sono ambasciatori di un sound peculiare e che ha già conquistato i cuori di giovani e meno giovani, inclusi ascoltatori affezionati generalmente a sonorità di ben altra natura che qui però han trovato uno spiraglio di luce distorta in un panorama sempre più plastificato.