8.5
- Band: AVENGED SEVENFOLD
- Durata: 00:53:25
- Disponibile dal: 02/06/2023
- Etichetta:
- Warner Bros
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Dopo sette anni di silenzio, la cosa che più avremmo desiderato dagli Avenged Sevenfold è un disco metal che proietta nella assoluta modernità la tecnica dirompente ed arrogante dei Megadeth, il groove dei Pantera e la velocità degli Helloween: un cocktail sì da sogno, ma comunque alla portata del bagaglio tecnico compositivo della band.
Inutile negare che, nei primi ascolti di “Life Is But A Dream…”, percepiamo solo l’arroganza – quella di una band chiusa per infiniti mesi tra le mura degli studi di registrazione che come punto di riferimento ha Mr. Bungle e Kanye West al posto di qualsiasi band heavy storica, in una raccolta ricca di finezze e sofisticatezze randomiche che contiene poco più del 60% di metal, come impongono le sensation dell’ultima ora Polyphia e Sleep Token.
Cosa è però giusto aspettarsi da una formazione che non ha più nulla da dimostrare, che ha già raggiunto lo status di headliner dei maggiori festival mondiali, che ha già prodotto quello che ci aspettavamo, che è stata aggredita per essere troppo appariscente, aver perso l’unico geniale compositore, per restare troppo aderente alle proprie influenze? Non è forse il caso che proprio un gruppo come gli Avenged Sevenfold, ormai blasonato, faccia quel cazzo che gli pare e spinga per allargare i confini musicali di un’intera scena in una pausa irripetibile come quella pandemica? Niente formule, niente singoli, gli ascoltatori vengono risucchiati un viaggio caotico ed eccentrico, tra esistenzialismo ed assurdo, che prova a distruggere ogni costruzione convenzionale ed ad incorporare quante più sonorità possibili in un turbinio stordente. Questo è “Life Is But A Dream…”.
Si potrebbe pensare che “Game Over”, spaziando tra flamenco, thrash metal e una coda à la Queen possa settare i toni per quello che verrà, ma non è affatto così. “Mattel” attualizza quanto prodotto nel seminale “City Of Evil” in quello che è probabilmente il brano migliore del disco, con un riff ‘chug’, un Wackerman pazzesco dietro le pelli e le lead di Synister Gates che bucano la quarta dimensione con una chitarra-synth spaziale, mantenendo arrangiamenti semplicemente incredibili ed intermezzi di piano accostati a bass drop tipici del metalcore. Dopo un inizio del genere, tracce che sono sembrate folli per un ritorno discografico – come “Nobody” e “We Love You” – ottengono un contesto più intelligibile, restando in territori abbastanza familiari nonostante alcune curve pericolose.
È con la lunghissima “Cosmic” che le cose cominciano a diventare davvero strane: quella che sembra un’epica ‘space opera’ prog, pennellata da un Gates in stato di grazia, apre uno stargate orchestrale in cui le grandiose linee vocali si fondono col vocoder. Ed ancora, nonostante qualche momento convulso “Beautiful Morning”, coi suoi echi Alice In Chains, ci fa credere per un attimo che siamo tornati sulla terra riallacciando i rapporti col passato e mostrando di nuovo lo strapotere di Gates e Wackerman, ma scopriremo presto il contrario.
Guardando il minutaggio speriamo di transitare verso brani più digeribili ed immediati, invece “Easier”, che parte come brano semiordinario (o almeno fondato sulle chitarre), si dimostrerà uno scontro automobilistico tra Kanye West, i Red Hot Chili Peppers e i Faith No More. La triade “G”, “(O)rdinary” e “(D)eath” invece rappresenta la totale dipartita verso la follia, in cui si abbandona il metal per un trip lisergico di progressive a tutto tondo, dove si fondono funk, jazz, Frank Zappa, voci femminili, Daft Punk e, addirittura, Frank Sinatra. La title-track si rivela un inatteso epilogo strumentale al pianoforte, ispirato a Chopin ed eseguito magistralmente da Gates, ennesimo twist inatteso da titoli di coda.
Lo shock è quindi ricercato e garantito per qualsiasi ascoltatore, ed è chiaro che l’unica chiave di lettura possibile diventa quella di lasciarsi trasportare in un viaggio volutamente strano, astratto e puramente artistico, rendendo funzionale l’esasperato eclettismo che risplende in un disco spiazzante, con una produzione incredibile e dei musicisti con una capacità di scrittura ed arrangiamento sovrumana. Cagare episodicamente fuori dal vaso in questi casi è inevitabile e volontario (così come il francesismo), ma ci sentiamo di applaudire al coraggio e alla visione degli Avenged Sevenfold, che nell’era dell’attenzione ridotta propongono un disco che fa terra bruciata intorno a sé, da discutere, scoprire e riascoltare, tanto in bilico tra il coraggioso, l’ambizioso e il pretenzioso che potrebbe anche diventare un classico.