8.0
- Band: AZUSA
- Durata: 00:35:54
- Disponibile dal: 10/04/2020
- Etichetta:
- Indie Recordings
- Distributore: Audioglobe
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Con “Heavy Yoke”, gli Azusa erano rimasti qualche passo indietro alla linea di demarcazione tra la musica solo interessante e quella che dà crisi di astinenza quando la si smette di ascoltare. Come quelle squadre zeppe di stelle che tutte assieme brillano meno della somma delle loro parti, questo quartetto d’assi (due ex membri degli Extol, l’ex The Dillinger Escape Plan Liam Wilson nei ranghi) si era espresso su registri attesi – dosi apprezzabili e impastate con cura di tecnica, furore, schizofrenia, rabbia – senza riuscire a regalare veri scossoni. Nell’esordio, gli Azusa erano tutto sommato prevedibili nella loro irrequietezza, bravi pur senza incidere nel profondo. Impressione confermata, del resto, quando li abbiamo incrociati live: un po’ slegati e inespressi. Per “Loop Of Yesterdays” il discorso si fa invece dannatamente serio ed emergono nitidamente non solo le qualità dei singoli, perché quelle non erano in discussione, quanto un’interazione fra i musicisti che ne esalta vicendevolmente il potenziale.
Bastano pochi secondi dell’opener “Memories Of An Old Emotion” per apprezzare il salto di qualità; le pause spiazzanti concesse dall’istrionica cantante stoppano le fiondate post-core e thrash e scaraventano in ambienti stranianti, ci si accorge presto che le docilità pop non sono introdotte schiacciando semplicemente un interruttore, con quell’effetto meccanico abusato in ambienti hardcore. Le trame soffuse veleggiano forti della loro beatitudine di fianco all’anima irruenta della formazione, entrando e uscendo dal minato campo di gioco in scioltezza e agilità. L’accavallarsi di morbidezze e coltellate fa istantaneamente una gran bella figura e si capisce in fretta quanto i Sea + Air, il progetto dove la Zafiriadou si era fatta notare, abbiano contaminato la personalità di Azusa. Il variegato, fascinosissimo indie/pop/folk di “My Heart’s Sick Chord” e “Evropi” si prende un cospicuo spazio, arpeggi obliqui si intromettono senza vergogna alcuna, non annacquando la carica eversiva né la facinorosità scalpitante che la componente metal porta con sé. Piuttosto che intervallarsi, grazia e violenza si accoppiano volentieri, la voce pulita cavalca tirate vertiginose, dandosi il cambio a urla hardcore terrificanti e di pari efficacia.
Come già evidenziavamo per “Heavy Yoke”, e qui il gioco riesce ancor meglio, gli Azusa innaffiano le loro torbide composizioni di un piglio metal molto concreto, bordate crude, sgranate – eccellente la produzione, tra l’altro – arrivano a cuore e pancia degli ascoltatori, utilizzando in abbondanza cadenze proprie del jazz, tanto per rendere più frizzante il tutto. Il tambureggiare ovattato e i preziosismi del basso sono l’ideale per mettere a suo agio la Zafiriadou in un gioiello qual è “Seven Demons Mary”, quando lo spartito si amplia per far viaggiare a pieno regime gli istrionismi vocali; discorso simile lo si può fare per “Skull Chamber”, un attorcigliarsi e distendersi alternante labirinti di angoscia e irreale serenità. Controllo della voce e voglia di osare vanno di pari passo, la singer greca si produce in una gamma di soluzioni enciclopedica non sbagliando un inserimento, un’interpretazione, travasando la sua personalità cosmopolita in vocalizzi a volte particolarmente esotici (la ninnananna della titletrack), sempre spontanei e frutto di una classe cristallina. C’è tanto istinto nella tracklist, incanalato abilmente in tracce concise, senza un filo di grasso in eccesso, che gettano un ideale ponte fra extreme metal novantiano e avanguardie hardcore odierne, irretendoci con le derive più cerebrali del pop. Stavolta, a differenza di “Heavy Yoke”, si fatica a trovare un pezzo inferiore agli altri, non ci sono banalità né andamenti prevedibili: le sorprese sono dietro ogni angolo, il riffing è costantemente di alto livello, la sezione ritmica fa faville. Gran colpo per gli Azusa, una seconda prova in studio da incorniciare!