7.5
- Band: BARONESS
- Durata: 00:46:02
- Disponibile dal: 15/09/2023
- Etichetta:
- Abraxan Hymns
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Vent’anni di Baroness, scoccano nel 2023. Vent’anni durante i quali la band guidata da John Baizley è passata da uno sludge dalle tinte progressive, a una conformazione tutta sua, un hard rock/metal ancora fortemente progressivo e legato a una tradizione di suoni e ritmi radicati nella musica dell’America profonda. Rock e folk scarni e malinconici, divenuti sempre più centrali nel raccontarsi della band, perlomeno a partire da “Yellow & Green”. Da allora, molte cose sono successe: il gruppo si è dapprima portato verso un’idea più facile e diretta del proprio suono, con “Purple”, poi ve se ne è allontanato, offrendoci l’articolato dipanarsi di “Gold & Grey”, disco al solito zeppo di ottime canzoni e penalizzato, secondo alcuni (non noi) da una produzione particolarmente ruvida e ostile.
Ora è la volta di “Stone”, che, se dal titolo non debitore ad alcun colore farebbe presupporre grosse novità, in realtà non va ad apportare cambiamenti radicali a un stile ben codificato e riconoscibile; per quanto, in perfetta tradizione Baroness, non ci sia alcuna inclinazione alla pigrizia compositiva o all’abitudine. Nel traghettarci verso una dimensione sognante e multicolore, nello scompaginare l’arcobaleno disseminandolo di minuziose sfumature, Baizley e compagni proseguono nel loro moto ondivago all’interno del metal dal sapore vintage, aggiungendo vecchie e nuove striature progressive e proiettando un’inconfondibile atmosfera anche su questa nuova uscita.
Per chi fosse rimasto disorientato da “Gold & Grey”, questa volta l’umore della produzione pare ben più accondiscendente all’ascoltatore comune, considerata la sua cristallina potenza e il comfort garantiti in ogni frangente. Andando in accordo a questa scelta, la stessa struttura dell’album è più compatta e l’alternanza di umori e situazioni mostra meno saliscendi dell’immediato predecessore. Una relativa facilità di interazione che non deve far sottovalutare gli abbinamenti cromatici prescelti in questa occasione, così simili al recente passato eppure mutevoli quel che basta per dare un suo carattere specifico al nuovo disco.
L’incontro di elettrico e acustico, i sapori bucolici che si infrangono addosso a un’energia metallica ancora vibrante, per quanto protesa verso l’estasi, sono il cuore di “Stone”, lo portano tranquillamente e con gioiosa foga verso l’etereo. C’è la ricerca costante di un modo di essere, l’evocazione delle coloriture sgargianti degli artwork da raggiungere attraverso trame strumentali fitte di dettagli, luminescenti: heavy quando necessario, diluite e psichedeliche quando c’è da far viaggiare lontani i pensieri. L’elemento metal funge da contraltare alla voglia di perdersi nell’onirico, inframmezzando chitarre rombanti e affilate a fughe di tastiera e intrusioni acustiche, che sanno invece di esplorazione e introspezione. Il tono mellifluo e pacato diventa ancora più centrale nelle manifestazioni sonore dei quattro, prende solitamente il sopravvento dopo avvii più grintosi e scenografici, proiettandoci in un altrove pieno di delicatezze e incanto.
È la struttura di un po’ tutte le canzoni più importanti di “Stone”, a partire dalla bella accoppiata iniziale di “Last Word” e “Beneath The Rose”, o dell’ultimo singolo “Shine”, che forse abusa dell’effetto ‘tranquillante’, durando leggermente troppo e affievolendosi un poco dopo una prima parte più sfavillante. Dolci ricami e una prova vocale più versatile aprono “Magnolia”, che con il suo sviluppo elaborato e il lirismo gonfio di pathos si guadagna un posto prediletto nei nostri cuori, inframmezzando efficacemente dialoghi chitarristici gioiosi e strofe di incalzante potenza. Devia lievemente dal sentiero compositivo generale la penultima “Under The Wheel”, dallo sviluppo e dai suoni più inquieti e instabili, sorretta da un incedere di batteria quadrato e veemente, mentre le melodie puntano verso coloriture un filo più cupe e meno beate del resto della raccolta. Lascia perplessi la sperimentazione vocale su “Choir”, alla quale fatichiamo a dare un senso, come passa e va via senza dare chissà quali emozioni la chiusura acustica di “Bloom”.
Nel complesso, “Stone” piace e mette in fila una serie di canzoni all’altezza del nome e del blasone dei Baroness. Però, pur denotando un buono, se non ottimo, livello qualitativo del materiale, perde il confronto diretto sia con “Gold & Grey”, sia con “Purple” e “Yellow & Green”, facendoci percepire, almeno per chi scrive, una certa ‘normalizzazione’ di questi artisti. Una fase di relativo assestamento che non riteniamo per forza preoccupante, anche se al cospetto dell’illustre discografia passata quest’album non promette, almeno per il momento, di eguagliarne la brillantezza.