6.5
- Band: BARONESS
- Durata: 01:14:59
- Disponibile dal: 17/07/2012
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Pare che al giorno d’oggi sia per forza necessario suonare rock o finto-progressive per farsi un nome e saper essere accettati dal pubblico. I Baroness, purtroppo, non fanno differenza. Ben lontana dai fangosi esordi fino al “Red Album” – troppo spesso ingiustamente oscurato dall’ombra degli allora esplosi Mastodon – e abbastanza distante anche dalle prime sperimentazioni avvenute su “Blue Record”, la band del cantante/chitarrista/designer John Baizley torna sul mercato con un lungo lavoro che assume la forma di un doppio CD, composto da due parti piuttosto distinte tra loro. La via verso la “commercializzazione” dei ragazzi di Savannah, vede in questo “Yellow & Green” una tappa fondamentale, essendo l’album ricco, soprattutto nella prima parte, di canzoni dalla presa decisamente immediata – perfette per essere proposte come potenziali hit radiofoniche – spesso alternate da pezzi più lenti volti a cercare di infondere un’adeguata atmosfera al lavoro; una formula che, per certi versi, si avvicina molto a quanto fatto sugli ultimi album di Mastodon e Opeth. Nei primi minuti, la sensazione di spiazzamento è forte, insopportabile se si segue la band dai suoi primi passi; quella band che, da un ibrido quasi perfetto di southern metal paludoso, pesanti ritmiche di scuola sludge e geniali sterzate blues, si è tramutata in una semplice creatura alternative rock da grandi palchi. Riconosciamo le potenzialità di singoloni da traino come “Take my Bones Away”, “Cocainum” o “Sea Lungs” – tra l’altro neanche troppo ispirati – ma la sensazione è che i Baroness si siano adagiati aspettando la chiamata di una qualche rinomata major in grado di portarli sulla bocca di molti, abbandonando la propria vera anima, quella metallica e aggressiva, in favore di soluzioni banali e per nulla impegnative, mettendo una grossa pietra tombale sopra la parola sludge. Piacciono di più, invece, le parti introspettive e impregnate d’atmosfera, come nel caso del breve intermezzo “Twinkler” o del crescendo di “Eula”, forse il pezzo migliore dell’intero full-length: qui i Baroness riescono a mantenere quel buon gusto musicale dei primi lavori e, anche se stiamo pur sempre camminando su un altro pianta, si riesce a preservare un minimo di quel buongusto andato smarrito con diversi passi falsi nella tracklist. La seconda parte dell’ascolto, che sarebbe poi “Green”, vede invece i Nostri cimentarsi in quello che è sempre stato il pallino di John, ovvero il progressive dei seventies, quello vicino ai Pink Floyd, Yes, Led Zeppelin e compagnia bella. Qui le atmosfere si fanno più spente e una coltre di fumo avvolge le otto tracce proposte, caricandosi di sussurranti chitarre liquide che, ora come ora, potrete sentire facilmente in molti dischi di band una volta etichettate come “metal”. Insomma, nulla di nuovo e stupefacente. Degna di nota solo l’ipnotica “Collapse”, un pezzo sicuramente d’effetto e composto come tradizione comanda: un bel respiro di sollievo dopo la zuccherosa “Foolsong”. Stiamo comunque sempre parlando dei Baroness, in passato ingiustamente sottovalutati; una band che non ha certo bisogno di lezioni di tecnica e songwriting. Questi sono musicisti abili, ottimi creatori di atmosfere, che avranno la possibilità di poter farsi apprezzare da una fetta più vasta di pubblico. Tirando le somme, però, pur avendo tra mani un apprezzabile disco di alternative rock da una parte, e di prog dall’altra, non ce la sentiamo di accogliere a braccia aperte queste nuove vesti dei creatori del “Red Album”, un disco ricco di metal, ovvero, quella cosa che manca in maniera piuttosto pesante a “Yellow & Green”. Il lavoro potrà piacere, indubbiamente, e ognuno sarà libero di tirare le sue conclusioni, ma l’operato di questa band sta cominciando a scricchiolare.